1. DIALETTOLOGIA SOCIOLINGUISTICA
1.1 Lingua in rapporto al dialetto
1.2 Dignita' e variabilita' del dialetto
1.3 Macrodiglossia e continuum dialettale
1.4 Koine' contro patois
1.5 Commutazione di codice ed enunciati mi
stilingui

2. GLOTTODIDATTICA
2.1 Il dialetto a scuola
2.2 L'italiano nel Veneto (italiano regionale e popolare)

3. DIALETTOLOGIA TIPOLOGICA (SINCRONICA)
3.1 Classificazione dei dialetti del Veneto
3.2 I confini dialettali
3.3 Le anfizone
3.4 Il dialetto trevigiano-bellunese
3.5 Il dialetto veneziano
3.6 Il dialetto moglianese

4. DIALETTOLOGIA STORICA (DIACRONICA)
4.1 Individualita' del cisalpino (italiano settentrionale)
4.2 Individualita' storica del dialetto veneto
4.3 Ripartizione dialettale all'interno del diasistema veneto
4.4 Il dialetto trevigiano-bellunese storico
4.5 Il dialetto veneziano antico

5. DIALETTOLOGIA FILOLOGICA (STORICA)
5.1 Filologia dei testi dialettali antichi
5.2 L'edizione critica dei testi dialettali antichi
5.3 Testi dialettali antichi veneto-settentrionali
5.4 La poesia eglogistica cinquecentesca veneto-settentrionale
5.5 L'egloga 'minore' di Paolo da Castello (text altoveneto dei primi del '500)

6. TOPONOMASTICA
6.1 Metodologia della ricerca toponomastica
6.2 Toponomastica veneta

7. LETTERATURA DIALETTALE VENETA CONTEMPORANEA

8. METODOLOGIA DELLA RICERCA DIALETTOLOGICA
8.1 Gli strumenti
8.2 La bibliografia

9. IL FUTURO DEL DIALETTO

 

 

 



LA LINGUA IN RAPPORTO AL DIALETTO

E' possibile parlare di 'dialetto' con competenza scientifica, dignita' e gradevolezza? E' quanto ci proponiamo di fare in questo spazio, aperto a tutti coloro che vorranno usufruirne, a vari livelli, dall' utente interessato e coinvolto all'operatore professionale desideroso di trovare indicazioni rigorosamente scientifiche, anche ad alti livelli di approfondimento. Certo, di "dialetto" si parla fin troppo, ma male. Chiamato in causa per vane rivendicazioni ideologiche, oppure fatto oggetto di scherno e di derisione, raramente il "dialetto" viene valutato nella sua dignita', scientifica e umana, di lingua. Le pur meritorie iniziative di recupero della cultura e della parlata locale sono spesso poco consapevoli, poiche' rimangono confinate nel folclore di una visione estetizzante e nostalgica. Indubbiamente da piu' parti e da parecchio tempo ormai si parla di rivalutazione del dialetto, ma come? C'e' chi ritiene che la scelta dell'italiano o del dialetto sia un fatto puramente ideologico; chi dice che il dialetto basta insegnarlo a scuola come l'inglese, o il latino, magari col laboratorio linguistico; chi entusiasticamente sostiene che entro la letteratura dialettale c'e' gia' tutto quello che serve, eliminando cosi' la dimensione orale del dialetto; chi si illude di poter imporre all'abitante della zona vicina la sua varieta' dialettale, perche' -secondo lui- essa e' notoriamente la piu' nobile, la piu' corretta, la piu' bella; chi dice che quando uno scopre com'era bello il dialetto di una volta, pian piano lascia quel mezzo italiano che parla adesso, e torna ad amare la natura, il verde, gli animali... Cosi', dopo che la condizione di monoparlante dialettale e' stata per decenni fatta a pezzi nella considerazione generale, da qualche tempo (ma ormai anche questa moda e' in via di esaurimento) si e' assistito ad un affannoso affaccendarsi intorno al "dialetto". Spesso gli operatori culturali locali lamentano la scarsa partecipazione della gente alle loro iniziative sul recupero del dialetto, senza rendersi conto che in questo recupero formale, in queste imposizioni dall'alto di "parole", la comunita' non riconosce se' stessa ma la curiosita' immotivata di chi fa questo tipo di ricerca, riducendo una lingua ad un repertorio di parole e ad un'accozzaglia di proverbi. Ogni intervento culturale che non parta dal rispetto e dalla conoscenza del dialetto come strumento di comunicazione e di cultura, ma lo concepisca come una sorta di letteratura degli incolti su cui mettere le mani ottiene questi risultati, le cui conseguenze si ritorcono contro la comunita', accusata di disinteresse e scarsa partecipazione. Percio' gli operatori si sentono poi autorizzati a propinare ben altre offerte culturali, "liberate" dalle "incrostazioni" dell'ingombrante bagaglio della cultura popolare. Eppure il "dialetto" in Veneto e' una presenza costante, una lingua viva di comunicazione alla quale quasi nessuno e' estraneo; boccheggia ma non affoga, perche' il processo di morte del "dialetto" e' quantomai complicato. Ma il parlante non e' piu' capace di dominarlo: quando lo parla non se ne rende ben conto; quando non lo vuole parlare esso salta fuori, magari maciullato e triturato, ma inestirpabile; e anche quando crede di parlare "italiano", bene che vada parla italiano "popolare" o "regionale". Talvolta il parlante ha stupita consapevolezza che il "dialetto" e' cambiato nel corso degli anni e che egli stesso non lo parla piu' come prima. Talvolta e' folgorato persino dalla sensazione di non parlare allo stesso modo in tutte le situazioni, ma di variare il linguaggio -impercettibilmente, o in maniera apprezzabile, o macroscopica- a seconda che comunichi con i figli, o con amici, o con estranei dialettofoni, o con italofoni; a seconda che assuma un atteggiamento formale o informale; a seconda che sia rilassato o teso, divertito o preoccupato, contento od adirato. La continua commutazione di codice tra "dialetto" e "italiano", perlopiu' inconsapevole e incontrollabile, produce nel parlante un alto tasso di enunciati mistilingui, e quindi insicurezza linguistica; cio' induce spesso il parlante a vergognarsi delle sue capacita' linguistiche ed innesca il processo dai piu' alti costi umani che possa subire una persona: cercare di liberarsi della propria identita' culturale e sociale, ripudiandola con vergogna. Del resto anche l'interlocutore che parla italiano di fronte ad un dialettofono si sente a disagio: da una ricerca effettuata nel 1986, relativa soprattutto alla realta' veneta (G. MARCATO, in AA.VV., Guida ai dialetti veneti, VIII, Padova 1986, p.155-202), risulta che l'italiano crea talvolta sfasature anche pesanti tra gli interlocutori. Ne nasce un imbarazzo reciproco, che si tenta di superare con adattamenti di codice: si vive il disagio di chi teme che il proprio atteggiamento sia giudicato in maniera negativa. La sensazione di essere dei pesci fuor d'acqua, di fare la figura dei 'saputoni' , di essere considerati superbi, spingono talvolta a parlare dialetto, alla ricerca di un contatto umano piu' saldo, perche' si percepisce la necessita' di abbandonare l'italiano abituale per adeguarsi alle abitudini e alle conoscenze della persona con cui si sta conversando. Il modo migliore per dominare queste situazioni consiste nella conoscenza delle dinamiche reali che governano il rapporto tra i vari codici linguistici nella nostra societa', per ottenere un uso consapevole della propria lingua, senza imbarazzi, infingimenti, stati di disagio, prendendo atto di quello che si e', col giusto orgoglio della cultura di cui si e' espressione e con l'eventuale, cosciente, processo di miglioramento delle proprie capacita' linguistiche nella direzione voluta, senza vergogna e condanne. Un 'sano' bilinguismo (cioe' un bilinguismo accettato, riconosciuto e voluto), capace di esprimere padronanza del dialetto quando si vuole, e dell'italiano quando si vuole, e' forse la migliore condizione linguistica augurabile, anche se in Veneto, per i motivi che vedremo, essa non e' facilmente raggiungibile. Ma la persona che voglia occuparsi del dialetto in maniera avveduta , come dovrebbe percepirlo? Dalla ricerca citata, effettuata su un campione di persone che hanno dimostrato effettivo interesse per il dialetto, emergono almeno cinque ottiche diverse, che pero' non si escludono fra loro. Per qualcuno il dialetto e' una 'piccola lingua', strettamente legata all'ambiente di provenienza del parlante e per questo connotata positivamente, immediata, quotidiana, efficace, simbolo di unita' e di condivisione. Per altri il dialetto e' importante per il suo significato culturale, in quanto patrimonio specifico di una comunita', segno della sua identita' culturale e sociale. In altri ancora prevale la dimensione intima e affettiva del dialetto, radicato nel nucleo piu' profondo della propria personalita': lingua del cuore, del ricordo, delle emozioni, degli anni giovanili, dell'evasione. Qualcuno sottolinea invece la sua funzione comunicativa, ancora viva, e ne mette in luce il valore strumentale di lingua tipica della cultura orale, fondata sul rapporto diretto. Un quinto gruppo infine mette in rilievo il significato etnico del dialetto, come rappresentante dei valori di un popolo, il mezzo attraverso cui si ritrovano le proprie radici col passato ed il proprio status presente. In tutte le definizioni e' chiara l'allusione alla dimensione orale del dialetto, percepito come fatto profondo di cultura, non sradicabile dal context sociale e culturale in cui si sviluppa, e non scindibile dalla personalita' di colui che lo parla e dall'assoluta individualita' e compiutezza che esso rappresenta. Inoltre, dalla ricerca in questione, compaiono altri interessanti rilievi. Si occupano di dialetto, in maniera rigorosa e consapevole, non soltanto un'omogenea categoria di persone che lo padroneggia con sicurezza, ma anche altre categorie per le quali il dialetto e' stata un'acquisizione successiva. Molti di costoro hanno giustificato la scelta di 'imparare' il dialetto con esigenze di comunicazione, col bisogno di 'trovarsi meglio con la gente', di 'poter comunicare senza essere o mettere a disagio', di 'convivere nella comunita' senza sentirsi diversi'; altri hanno posto l'accento sulla comodita', l'espressivita', la curiosita' o l'interesse anche scientifico suscitati dal 'dialetto'. Sono tutte motivazioni, come giustamente osserva la Marcato, che hanno la possibilita' di essere attendibili solo se sullo sfondo si immagina una comunita' linguistica che del dialetto fa ancora un uso vitale e quotidiano. Questo spazio riservato al dialetto -e piu' in generale a tutti gli ambiti della cultura locale- nasce con queste motivazioni e per tutti coloro che si riconoscono in queste motivazioni; si propone inoltre di affrontare ogni questione riguardante il rapporto tra codici linguistici diversi in Veneto con la necessaria rigorosita' scientifica -senza la quale ogni discorso sul dialetto e' fuorviante- venendo incontro alle esigenze di quanti, anche per motivi professionali (insegnanti, operatori culturali, studenti universitari che preparano esami o tesi di linguistica, filologia, dialettologia) cercano informazioni sicure, suggerimenti metodologici, bibliografia precisa ed accurata. Soprattutto questo e' uno spazio aperto al dibattito, a chi ha qualcosa da dire sul dialetto in un rapporto fecondo e stimolante, e a chi ha delle domande da fare a cui sinora non ha mai trovato risposta: a tutti -nel modo piu' rigoroso e scientifico possibile- si rispondera'. Per vedere se e' possibile parlare di 'dialetto' con dignita', competenza e gradevolezza!




DIGNITA' E VARIABILITA' DEL DIALETTO

Bisogna precisare innanzitutto la dignita' scientifica dei dialetti (e, quindi, di chi li parla, e di chi se ne occupa). Essi non sono un'appendice o una protuberanza degradata dell'italiano. Non derivano e non dipendono (storicamente) dall'italiano.
I dialetti italiani (glottologicamente) sono lingue autonome e derivano direttamente, anche loro come l'italiano, dall'evoluzione del latino parlato.
Anche l'italiano e' (o meglio, e' stato) un dialetto. E' diventato lingua nazionale per motivazioni indipendenti dal suo maggiore o minore status scientifico di lingua, cioe' dal fatto che avesse piu' o meno autonomia strutturale, tale da renderlo peculiare rispetto agli altri dialetti.
Non si giustifica quindi linguisticamente alcun senso di inferiorita' di una parlata rispetto ad un'altra: ogni parlata, usata collettivamente da una comunita', linguisticamente e' una lingua come un'altra. Le disparita' che di fatto esistono tra una parlata e l'altra nascono invece da motivazioni prettamente sociolinguistiche. Per questo noi chiamiamo 'dialetto' la parlata locale.
Il dato piuttosto che abbiamo sotto mano e' un altro: i dialetti sembrano sempre sul punto di morire, ma non muoiono mai.
Grosso modo possiamo dire che i due terzi della popolazione italiana conoscono e alternano nell'uso, in proporzioni varie, italiano e dialetto; un quarto e' monolingue italofono; e una piccola minoranza rimane ancorata alla dialettofonia esclusiva o quasi esclusiva (da G. BERRUTO, Come si parlera' domani: italiano e dialetto, in AA.VV., Come parlano gli italiani, Firenze 1994, p.17).
Naturalmente non e' detto che una lingua non debba 'morire'. Farebbe parte del suo normale destino, nel momento in cui venisse colpita da ripercussioni di natura sociolinguistica.
Quello che ciascuno di noi puo' notare e' che il dialetto appare un organismo vivo, che si modifica man mano, senza essere cristalizzato, immobile, fuori del tempo e dello spazio: non muore definitivamente quindi, ma cambia.
Il nostro dialetto (se lo conosciamo e parliamo) non e' quello che parlavano i nostri nonni. Ma neanche quello dei nostri padri. E -fatto che provoca sconcerto, e forse rimpianto, o invece indifferenza, o sollievo- non e' nemmeno quello dei nostri figli.
Il processo di morte del dialetto e' quindi quantomai complicato, differenziato e contorto. E' un processo piu' contraddittorio di quanto non si pensi. Si tratta di vedere pero' se non sia proprio questa la dinamica di morte di una parlata.
Non accade che d'improvviso non lo si parli piu', che una generazione faccia il taglio netto e compattamente passi all'italiano. Non si possono stabilire tranquillamente fasce d'eta' che parlano dialetto e fasce che parlano italiano. Non si puo' nemmeno generalizzare una perentoria spartizione geografica: di qua del Piave, di la' del Piave; in pianura l'italiano, in montagna il dialetto; citta' contro campagna...
E non vale sempre in maniera incontrovertibile la divisione in fasce sociali, anche se tale stratificazione rimane comunque significativa. Al riguardo citiamo un esempio del glottologo sociolinguista Trumper : in Veneto un proletario diventato industriale non avrebbe alcuno scrupolo a continuare ad impiegare il dialetto (anche esclusivamente), mentre se fosse diventato burocrate d'alto rango userebbe il dialetto solo nell'intimo delle mura domestiche o parlando con inferiori.
E' semmai il fattore dell'insicurezza/sicurezza del proprio status sociale ad essere piu' importante nella frantumazione dialettale della stessa appartenenza ad una data classe socioeconomica.
La progressiva incertezza nell'impiego delle regole su cui si fonda e' l'elemento rivelatore della disgregazione di un dialetto.



MACRODIGLOSSIA E CONTINUUM DIALETTALE

Si dira': varra' almeno l'influenza famigliare a garantire la compattezza del dominio dialettale. Invece nemmeno questo e' sufficiente.
Innanzitutto perche' il ruolo (linguistico) della famiglia e' di molto diminuito, a vantaggio di altri domini (all'interno dei quali, in Veneto, si continua a parlare dialetto, o almeno, non italiano): il peer group (i compagni di gioco), le attivita' di scuola, la sfera del lavoro.
Poi perche' gli stessi genitori non parlano piu', non solo la lingua dei loro padri, ma nemmeno quella che essi parlavano 15-20 anni fa (cosa di cui ogni tanto hanno stupita consapevolezza).
Anzi se i due genitori -ammesso che siano della stessa zona e abbiano piu' o meno la stessa eta', perche' altrimenti il paragone non si pone nemmeno- confrontassero il loro modo di parlare, noterebbero delle consistenti differenze.
Infatti l'acquisizione piu' dirompente -ma anche quella piu' attesa-, a cui si e' giunti gia' da molto tempo nella ricerca linguistica, e' che ciascuno di noi parla una lingua diversa dagli altri, ciascuno ha il suo idioletto.
Ma non solo. I due genitori di cui ci serviamo come esempio vedrebbero addirittura che ciascuno di loro non parla sempre allo stesso modo.
Variano il linguaggio, in certa misura inconsapevolmente, adattandolo agli interlocutori, alla situazione, al loro stato d'animo, con differenze di registro anche macroscopiche, travalicanti spesso il dominio di partenza (come nel caso di quei genitori dialettofoni che scelgano di parlare italiano ai loro figli).
E certo, quando credono di parlare italiano, stanno parlando nel migliore dei casi italiano popolare o regionale.

Due genitori e cinque forchette.
Introduciamo un esempio teorico ma assai significativo, utilizzando due possibili registri della parlata liventina (territori veneti fra Piave e Livenza), non senza precisare prima il valore fonetico di alcuni segni impiegati:

(z) costrittiva alveodentale sonora, come l'italiano settentrionale /casa/
(th) costrittiva interdentale sorda, come dialetto rustico /thinkue/ "cinque"
(ñ) nasale palatale. come italiano /gnomo/
(k) occlusiva velare sorda, come italiano /casa/
(ô, â) vocali nasalizzate

Allora abbiamo i due genitori impegnati a scambiarsi questa frase:
"Cosa dici? Ti ho detto che bisognerebbe comperare cinque forchette. Non te lo dico piu'. Antonio e' andato. Andiamo anche noi?"
in queste due differenti situazioni:
quando sono soli (1),
o quando hanno a cena, poniamo, il professore universitario del figlio (2) (nel qual caso con l'ospite si sforzerebbero di parlare italiano).

1) (utilizziamo un codice rustico, ma non troppo)
dìtu ke? te ò dit ke bizoñaràe krônpàr thinkue pirôn. No te'l dighe pì. Toni (e)l' é 'ndat. 'Ndén(e) ânka noântri?

2) Kòsa dìzetu? Te go dito ke bizoñarìa konprar sinkue forkete. No te o digo pì(ú). Antonio el zé 'ndato. (A)ndémo anka noialtri?

Come si vede le differenze appaiono evidentissime.
a) fonologia:
(1) nasalizzazione piu' marcata
(2) nasalizzazione meno marcata

(1) uso delle interdentali
(2) uso delle costrittive di koine'

b) struttura della parola:
(1) caduta vocale finale: dit, 'ndat; nel morfema di plurale piron
(2) conservazione della vocale finale: dito, 'ndato

c) morfologia:
(1) morfema 'rustico' di I pers. plurale del verbo (-on + -emo): 'ndén(e)
(2) I pers. plurale di koine': (a)ndémo.

(1) morfema 'rustico' /e/ di I pers. singolare del verbo: dighe
(2) morfema di I pers. singolare di koine' /o/: digo

(1) morfema di condizionale rustico in /ae/: bizoñaràe
(condizionale settentrionale indigeno, dal tipo latino volgare PORTARE + HABUI, con assimilazione e scomparsa di -U-, spirantizzazione B > V, morfema finale -E : portaràve > portaràe)

(2) morfema di condizionale di koine' in /ia/: bizoñarìa
(di koine' settentrionale, importato dalla Francia, dal tipo latino volgare PORTARE + HABEBAM, tardo latino *PORTARAVEVA, caduta del segmento /av/ > PORTAREA > chiusura vocale in iato portarìa)

d)morfosintassi:
(1) te ò dit
(2) te go dito (concrezione veneziana dell'avverbio ghe)

(1) no te 'l dighe (dialetto rustico 'l = el)
(2) no te o digo (koine' o = lo)

(1) (e)l' é 'ndat
(2) el zé 'ndato (costrittiva alveodentale sonora di koine')

e)sintassi:
(1) posposizione del pronome interrogativo ke (straordinaria ed isolata caratteristica dei dialetti liventini): dìtu ke?
(2) pronome interrogativo in posizione normale, di koine': kosa dìzetu?

f)italianismi:
(1) kronpar (metatesi di /r/, per dissimilazione)
(2) konprar contro

(1) l'ipocoristico (diminutivo) dialettale Toni.
(2) Antonio contro

E' chiaro che poi all'interno di queste due delimitazioni, che peraltro non sono esasperate ne' nel senso dell'arcaicita', ne' in quello dell'adesione piu' bieca alla koine', e' possibile una vasta gamma di variazioni individuali.
Quella che domina, in un cosi' alto tasso di commutazione di codice da parte di ciascun parlante, e' una situazione di continuum, installata nella nostra competenza linguistica profonda.
Ma all'atto della comunicazione essa e' parzialmente inconsapevole: non e' possibile cogliere con sicurezza il discrimine, la soluzione di continuita', il salto al di qua del quale si parla in un certo modo, e al di la' del quale si parla in un altro. E' un unico, ininterrotto nastro magnetico entro cui, volta a volta, la nostra competenza profonda ottimizza la grammatica adeguata a quel particolare momento, a quella particolare situazione, a quel particolare interlocutore.
La continua commutazione di codice produce insicurezza linguistica e quindi un alto tasso di enunciati mistilingui.
Il parlante non sa stabilire con coscienza, con scelta consapevole e precisa, i vari livelli di grammatica che deve usare, non sa stabilire nettamente quando ancora parla (crede di parlare) dialetto e quando parla (crede di parlare) italiano. Nell'ambito dello stesso enunciato, della stessa frase, dello stesso sintagma, della stessa parola, puo' oscillare da un dominio all'altro, senza averne coscienza, almeno superficialmente.
Il risultato e' una koine' (lingua comune) dialettale, a vari livelli d'uso, parzialmente non dominata dal parlante; un codice che non e' piu' dialetto individuabile (patois) ma non e' nemmeno italiano, seppur regionale.
In questo continuum linguistico, che nei fatti e' ancor piu' complesso, si possono enucleare almeno quattro gradi di commutazione del codice dialettale, riconoscibili, partendo dal 'basso', in:
a) patois locale
b) dialetto suburbano
c) dialetto urbano
d) koine' regionale.
Inoltre, anche il sistema superstratico, l'italiano del Veneto, cioe' l'italiano regionale, ha una vasta gamma di varieta' intermedie, che sfumano lentamente l'una nell'altra, tanto che anche per l'italiano regionale si puo' parlare di situazione di continuum.
E' chiaro che tra i due continua (il codice dialettale e quello dell'italiano regionale) s'instaura una fitta serie di interferenze reciproche che aggravano vieppiu' una situazione di insicurezza linguistica.
Un filtro di interferenza nella competenza linguistica di ciascuno regola questi scambi in ambedue le direzioni, ma lo status di lingua di prestigio rivestito naturalmente dall'italiano regionale "produce uno spostamento strutturale (graduale) verso l'italiano nella formazione della koine' dialettale" (J.TRUMPER, Ricostruzione nell'Italia settentrionale: sistemi consonantici. Considerazioni sociolinguistiche nella diacronia, in AA.VV., Problemi della ricostruzione in linguistica, Roma 1977, p.274).
Ecco perche' il dialetto (il patois) regredisce (mentre la koine' dura da secoli, e puo' durarne altri ancora).
Forse e' questa la morte del patois: muore perche' non siamo piu' capaci di dominarlo, perche' quando lo parliamo non ce ne rendiamo conto, e quando non vogliamo parlarlo esso salta fuori, triturato, maciullato, inscheletrito, senza polpa di cultura.
Quello che salta e' la volonta'. E sparisce la cosa piu' importante perche' sappiamo che la lingua e' un codice convenzionale che esprime nel parlante un atto di volonta' deliberata, nel quale si raccoglie tutta l'essenza della sua cultura.
Ecco perche' quando salta la volonta' dell'atto linguistico va persa anche la nostra cultura.
Questo e' cio' che sta succedendo oggi in Veneto. Questo fenomeno si chiama macrodiglossia.

KOINE' CONTRO PATOIS

Ma come nasce una koine'? Come e' nata la koine' veneta?
I dialetti -geneticamente- non si confondono uno con l'altro. Se ciascuno per proprio conto deriva dal latino parlato, e' chiaro che ogni dialetto -geneticamente- deve essere dotato di una propria ed indipendente grammatica, esplicata entro quello che si definisce 'sistema linguistico'.
Vi devono essere allora, storicamente, dei gradini di differenza tra i dialetti. Vi deve essere stato qualcosa capace di segnalare l'autonomia di ciascun dialetto entro sistemi linguistici piu' ampi.
Il fatto stesso che noi parliamo di dialetto 'veneto' implica l'accettazione di una separazione tra questo e gli altri dialetti (italiani , per es., o dell'Italia Settentrionale). Ma esso, a sua volta, ha molte partizioni interne.
Concettualmente allora il gradatum, la differenza, la separazione c'e'.
Pero' i dialetti, anche se geneticamente autonomi, non valgono tutti allo stesso modo, nel senso che, per motivi assolutamente extralinguistici, vi sono dialetti piu' 'forti', dominanti, e dialetti piu' 'deboli', dominati.
Una koine' nasce e si sviluppa quando il dialetto piu' forte si espande, impone le proprie regole ai dialetti circostanti, in una parola li colonizza.
Allora questo dialetto di superstrato e' visto come piu' bello, piu' elegante, piu' chic, e coloro che parlano altri dialetti cercano di adeguarvisi -senza riuscirci del tutto, pero'- contribuendo a creare ed accettare ristrutturazioni anche profonde della loro competenza linguistica. Regole categoriche della grammatica di partenza diventano variabili e tendono ad una nuova categoricita', modellata (ma semplificata ed adattata) sulla grammatica dominante.
Comincia un avvicinamento strutturale dei codici che "si manifesta nel cambiamento della forma canonica del morfema del codice basso in direzione di quella del codice alto (A. ZAMBONI, Italienisch: Arealinguistik IV. a) Venezien, in Lexikon der Romanistischen Linguistik (LRL), IV, 1988, p.519)", per cui avviene il ripristino di strutture cancellate, ad es., da regole apocopanti (la restituzione delle vocali finali), oppure la conversione di fonemi del codice basso in altri di quello alto comuni al primo, con conseguente fusione (esempio tipico la trasformazione delle interdentali), oppure ancora (per restare sempre all'interno del gruppo veneto-settentrionale) l'eliminazione della regola di neutralizzazione del contrasto sorda/sonora in fine di parola, ecc.
La koine' (lingua comune) cosi' costituita si dimostra in grado via via di conquistare sempre maggiori spazi geografici e sociali sino a diventare un vero e proprio codice regionale, capace di respingere e relegare sempre piu' indietro i patois locali.
Nel Veneto, storicamente, il dialetto dominante e' stato il veneziano.
Esso comincio' ben presto la sua colonizzazione del Veneto -che continua ancora- procedendo di pari passo con l'espansione di terraferma della Serenissima, a partire dalla meta' del '300.
In prospettiva diacronica bisogna quindi accettare la tesi che la colonizzazione linguistica veneziana si identifichi con un movimento diatopico (attraverso lo spazio), da Est a Ovest, da Sud a Nord, dalla bassa all'alta pianura, alla collina, alla montagna; che i dialetti di montagna siano (stati) piu' 'rustici', meno toccati dal flusso linguistico colonizzatore; che tanto piu' arcaico (nel senso di meno esposto agli influssi della koine') e' (stato) un dialetto quanto piu' verso Nord e' parlato.
Ma, lo si e' ricordato all'inizio, il processo di avanzamento della koine' -ed il parallelo regresso dei patois- non e' cosi' lineare come si potrebbe credere.
Siccome poi il fenomeno innovativo (e l'accettazione dell'innovazione) e' sempre prima appannaggio delle classi piu' abbienti, che vengono, poi, spontaneamente imitate dalle classi meno abbienti, si e' notato che il processo di koinizzazione procede anche, in senso diastratico (cioe' attraverso le fasce socioeconomiche), dall'alto in basso, dai piu' abbienti ai meno abbienti.
Si e' visto anche che l'innovazione e' appannaggio piu' delle donne (tranne quelle molto anziane) che degli uomini: sono le donne i maggiori agenti del cambiamento.
Inoltre, i giovani, naturalmente, innovano piu' degli anziani, per cui puo' accadere -e accade- che un giovane, ad es. di Piavon, dica forketa, e un vecchio, ad es. di Venezia, dica pirón (mentre, ad es., un vecchio di Revine Lago potrebbe ancora dire skulièr).

Piron contro forketa.
Consideriamo la diffusione di questa coppia lessicale - piron e forketa- ad es. nell'area del trevigiano.
Nell'evidente avanzamento di forketa, imposto dalla koine', e nel parallelo regresso di piron, peraltro anch'esso storicamente bizantinismo proveniente da Venezia, si sviluppa una prima linea evolutiva che potremmo chiamare diacronico-geografica cioe' progressiva nel tempo e nello spazio, mediante una tecnica di allargamento a macchia d'olio dell'innovazione dal centro di maggior prestigio ai centri minori.
Ma, contemporaneamente a questa, determinabile teoricamente in ogni momento dell'evoluzione, intervengono altre dinamiche piu' complesse, come quella del paracadutismo.
Grazie ad essa l'avanzamento dell'innovazione di koine' puo' saltare le zone non urbane che si trovano, ad es., alle porte di Motta, o di Oderzo, ed andare invece a "paracadutarsi" presso le fasce sociali più abbienti del piccolo centro urbano -piu' lontano geograficamente dal punto iniziale dell'innovazione, ma ad esso piu' solidale per standard socioeconomico di vita, per condivisione di valori, per mode culturali.
Inoltre a questa seconda linea evolutiva che risulta caratterizzata da variabili sociali, si affiancano variabili anagrafiche, determinate dall'avanzamento di forketa, dai parlanti piu' giovani a quelli piu' anziani, e variabili sociolinguistiche, relative ai diversi registri linguistici adottati da ciascun parlante in diverse situazioni: formali (in cui prevale forketa), o informali (in cui, ma sempre meno, prevale piron).
Quindi ogni mutamento linguistico in un dato context sociale e' una conseguenza, a ripercussione piu' o meno rapida, di un'adesione imitativa ad un modello ritenuto superiore. Inoltre, quando le fasce sociali responsabili dell'innovazione si "accorgono" dell'imitazione operata dalle altre fasce, innovano a loro volta per mantenere intatta la loro preminenza linguistica e culturale, e il ciclo ricomincia e continuamente si rinnova.
Non si dimentichi, tuttavia, che i fattori sociali non sono mai le uniche, esclusive cause -o i fini- di un qualsiasi specifico cambiamento linguistico. Ma certamente , come fatti extralinguistici, al fianco di quelli intralinguistici, essi giocano un ruolo rilevante nel cambiamento.

Un esempio storico: il participio in -esto.
Facciamo ora un esempio storico, ben determinato, che presenta aspetti curiosi ed interessanti.
Si tratta di un caso tipico di doppia innovazione, determinato da Venezia nel corso dei secoli, che non ha ancora concluso il suo processo: i participi in /-ù/ e in /-est(o)/, ad es. veñù e veñésto.
Il tipo -UTO deriva dalla forma debole del participio -UTUM della coniugazione latina in E (proveniente dai verbi in -UERE), accanto ad -ATUM e -ITUM; in dialetto la normale evoluzione ha dato -UTO > -udo > -ùo (oppure -ù).
Il tipo -ESTO dipende da una parallela formazione di participio debole in Italia settentrionale, modellata sul tipo latino forte POSITUS > POSTO: ad es., dal perfetto forte MOUIT si origina la forma concorrente di perfetto debole mové, il cui participio passato mové + st(o) da' movést(o).
Il morfema invade poi la coniugazione in I > veñést (oppure la terminazione rimane in /i/ come in kaìst "caduto", tipico della Sinistra Piave).
Del resto gia' nel grammatico Virgilio (V-VI sec.) compare il participio LEGESTUM, avvalorando l'ipotesi che la formazione risulti gia' nata nel latino.
La presenza di questi due allomorfi determina una strana situazione: i parlanti dialettali -diciamo, per comodita'- piu' sensibili alle mode linguistiche ritengono, ora, piu' elegante la forma veñù; gli altri, quelli piu' lontani dal centro innovatore, continuano a considerare forma piu' elegante veñest, anche se ben presto saranno (sono) indotti a cambiare idea.
In epoca medioevale tutti i parlanti dialettali veneti pronunciavano veñù(do). Nei testi antichi -esto non compare con particolare frequenza ed e' quasi del tutto ignoto al bellunese e al trevisano nella fase arcaica. Ma la fortuna di -esto nei dialetti veneti e' legata alla sua adozione (1400-1500) nel veneziano antico, in alcuni verbi; e cio' ha dato il via al processo di imitazione.
Ma ora -esto e' stato del tutto eliminato dalle citta' venete meridionali, compresa la fascia urbana attorno a Venezia.
Perche' proprio da Venezia, ad un certo momento, parti' la restituzione per influsso italiano di -UTU > -ù(d)o, mentre ancora -esto non era arrivato a tutti gli strati sociali come forma piu' elegante.
Come s'e' visto, i ceti piu' abbienti non sopportano -storicamente- di perdere la loro preminenza linguistica, il segno della loro differenza dagli altri, costituito da un modo diverso - secondo loro, piu' fine- di parlare.
Quando si accorsero che -esto ormai era penetrato in altri strati reagirono e tornarono ad -ù, ed il ciclo imitativo ricomincio'.
Il tipo -esto intanto guadagnava terreno nelle campagne, e nel Veneto settentrionale, dove i parlanti ignoravano il contrordine, l'inversione di tendenza: per loro, ora, il tipo piu' elegante era -esto.
E tuttora nelle aree periferiche l'uso di -esto e' ritenuto indice di parlata piu' fine e meno plebea, ed anzi, il morfema e' stato assunto anche da forme verbali che altrove non lo conoscevano (ipercorrezione): si veda, ad es., il citato kaìst.
Fra un po' anche questi parlanti capiranno che bisogna tornare ad -ù(d)o. Per intanto, mentre ormai dappertutto in Veneto e' considerato un tratto locale da evitare, in certe zone marginali di campagna il participio passato -esto e' diventato un elemento distintivo di lingua superiore, pur non trovando appoggio nell'italiano.
Potra' anche capitare ormai che i piu' giovani fra questi parlanti dialettali, cioe' fra quelli che ancora annoverano -esto nella loro competenza linguistica, passino direttamente -variando poi a seconda delle situazioni- dal tipo veñest al tipo italiano venuto, saltando a pie' pari, e magari ignorando che sia mai esistito, veñù.


DIALETTOLOGIA SOCIOLINGUISTICA

COMMUTAZIONE DI CODICE ED ENUNCIATI MISTILINGUI


Prendiamo in considerazione la trascrizione di un text dialettale raccolto a San Giovanni di Motta di Livenza e pubblicato in trascrizione fonetica in appendice alla monografia riservata al Veneto del "Profilo dei dialetti italiani" (ZAMBONI 1974:88-89), e osserviamone innanzitutto i fenomeni sociolinguistici di interferenza tra dialetto rustico trevigiano, sovrapposizione della koine' veneziana e superstrato italiano popolare.

Numerosi indizi nel parlato dell'informatrice evidenziano una situazione di variabilita'.

Ci limitiamo a registrarne alcuni, soprattutto in ambito fonologico, livello che possiede, assieme al lessico, e diversamente dalla sintassi e dalla morfologia, la massima variabilita' potenziale a causa di influssi extralinguistici e sociali (cfr. BERRUTO 1995: 62).

In un context più informale con riferimenti al proprio passato sentimentale, che chiameremo (a), l'informatrice usa parké "perche'", col tipico fenomeno dialettale di apertura di /e/ protonica davanti ad /r/; ma in un segmento narrativo caratterizzato dalla presenza formalizzante dell'elemento religioso, che chiameremo (b), un filtro di interferenza linguistico col dominio superiore (l'italiano regionale) produce la chiusura in perké.

Viceversa, a fronte di un generale fenomeno venezianeggiante di lenizione di /l/, appare la forma conservata in èa la ghe risponde.

Assai istruttivo e' il fenomeno della caduta delle vocali finali, cosi' tipico del gruppo dialettale trevigiano-bellunese. Nel nostro text, ad una ricca serie di lessemi apocopanti, che travalicano le condizioni veneziane, risponde la presenza di alcuni termini con la vocale conservata nel context (b): kanpi, fato; anche in legame fonosintattico: tuto kontento. Analogamente, (a) presenta vòi "voglio", con la caduta della vocale finale, mentre in (b) compare vòio, con il blocco della regola apocopante.

Ma il blocco dimostra la sua asistematicita' sia nel context (a) in cui appare el diz "egli dice", che nel context (b): infatti a due occorrenze dize "(ella) dice" risponde la forma abberrante diz (intermedia fra l'esito di koine' dize ed il rustico dis), indice certo di insicurezza e di interferenza linguistica.

Inoltre nel text la vocale non cade dopo velare (bianko) o dopo labiale (kanpi): il fenomeno si mantiene quindi in posizione intermedia tra le condizioni veneziane e quelle schiettamente altovenete.

La variabilita' del codice emerge anche nei seguenti fenomeni:

- intermittente realizzazione dell'interdentale sonora [D] < DJ (che ha distribuzione simile a [D], allofono di /d/) in mèDa "mezza", contro gli italianismi giorno, Giovani, imagine;

- riduzione a continua dell'occlusiva velare intervocalica in sioraloGo, le Ganbe contro il mantenimento in neghe, dighe, ecc.;

- perdita della velarizzazione in kando (contro kuà) e conservazione italianizzante in el guardi (contro varda);

- alternanza fra la pronuncia labiodentale vèc'a, vénthe, 'nfermo e quella approssimante bilabiale sonora e sorda Becét, Bénthe, 'nFermo .

In campo morfologico traluce la medesima condizione di variabilita':

- articoli allomorfi al/el (o si tratta solo di variazione fonologica?);

- l'imperfetto mi ièra contro il tipico morfema /e/ in ghevée, neghe, aspete;

- il congiuntivo vèña dove ci aspetteremmo l'indicativo veñe, più omogeneo col registro più rustico espresso da forme come il condizionale in /ae/ baearàe;

- la concrezione veneziana dell'avverbio ghe col verbo aver da cui la forma go da dar contro il trevigiano-bellunese mi ò dit.

In campo lessicale abbiamo sedia (dove ci saremmo aspettati karèga), e una coppia sinonimica, tratta da due codici diversi, con un evidente intento didascalico: cizioét / kapitel.

Anche all'interno del codice dialettale rustico, regole fonologiche categoriche, in origine distinte, sembrano risentire di interferenze morfofonologiche, per cui, ad es., l'informatrice pronuncia pert, con [t], il participio passato "perso", invece di pers, con /s/. L'esito con la dentale potrebbe risentire della forma dialettale pert " (egli) perde", derivante da normale desonorizzazione della consonante finale rimasta scoperta , oltre che di interferenze da ottimizzazione diasistematica del tipo pers / perth.

Emblematica, per le sue implicazioni sociolinguistiche, la cospicua emergenza nel text di tratti di nasalizzazione della vocale (ûn, tânte, pônt, ecc.), a cui risponde, ma in variabile indipendente, il caratteristico tratto veneto dell'allofono nasale velare [N], generalizzato in posizione finale e in chiusura di sillaba anteconsonantico (per cui, piu' correttamente, ûN, tâNte, pôNt, ecc., ma anche, ad es., kaNpi, koNparì).

Dall'analisi del text mottense riportato da Zamboni -di cui or ora abbiamo fatto notare l'emergenza di fenomeni di variabilita' nella competenza linguistica- emergono tratti venezianeggianti affiancati a tratti di notevole conservativita' trevigiano-bellunese, caratteristica questa tipica del liventino. I tratti maggiormente ascrivibili al veneziano sono i seguenti:

- il trattamento di /l/ evanescente (voéa, baeàr, se easén, ecc.; mentre finale kapitel);

- la dittongazione nella serie palatale e in quella velare (píe, ankúo, e sioraloGo con la tipica riduzione /uo/ > /io/ veneziana): emblematiche soprattutto le ricorrenze del verbo "essere" ièra, ierési (in cui compare, pero', il caratteristico /-si/ enclitico);

- il trattamento di CL > [c'] (Becét) .

I tratti invece piu' aderenti al patois trevigiano-bellunese, in campo fonologico e della struttura della parola, appaiono questi:

- la caduta delle vocali finali dopo dentale e sibilante (pont, dit, pitost, 'ndat, e tante ben con la vocale /-e/ di ripristino, ecc.; ades, dis) ;

- la presenza delle interdentali, sorda /th/ e sonora /D/, tratto assai tipico del patois trevigiano-bellunese ed estraneo al veneziano; il fatto che l'informatrice nel nostro text usi le interdentali e non le sibilanti forti indica un registro piuttosto rustico;

- la chiusura di /e/ protonico in /i/ davanti a palatale: ti si, Bistìa, Biñù.

Per quanto riguarda la morfologia trevigiano-bellunese notiamo:

- il morfema /-e/ di prima persona singolare (ghevée, neghe, aspete);

- l'imperfetto con vocale tematica /e/ nei verbi della prima coniugazione come estensione di -EBA ('ndéa "andava");

- le caratteristiche forme verbali di I e II persona plurale con l'enclitico /-si/ (qui ierési) (su cui v. Marcato 1990:84);

- la tipica terminazione /-en/ di prima plurale: easén (derivante da un incrocio tra /-emo/ e /-on/);

- il condizionale arcaico in /ae/: baearae;

- la conservazione delle forme originarie (e)l é "è" contro veneziano zé, e del verbo "avere" senza /g/ contro la concrezione del clitico esistenziale ghe "ci" in veneziano, peraltro ancora distinto sino all' 800;

- la forma debole di participio passato s' a ga konparì "e' comparsa", con l'uso dell'ausiliare "avere" e l'eccezionale presenza del SIC narrativo in un costrutto presentativo, con soggetto posposto, gia' segnalata da Sanga 1996:91,n.193.

In ambito sintattico -che pure costituisce un livello di analisi privilegiato perche' meno suscettibile di altri di essere toccato dall'influsso esterno, sociale, extralinguistico-, ora in grande sviluppo anche nella dialettologia italiana, osserviamo solamente un esempio di inversione dei clitici, secondo l' ordine, rispettivamente:

1) oggetto diretto 2) oggetto indiretto: dighe k el t o dito mi, diversamente dalla forma canonica con ordine inverso.

IL DIALETTO A SCUOLA

"Ha mai seriamente avuto posto nella scuola il dialetto? […] La risposta che viene è decisamente negativa: il dialetto non ha mai avuto seriamente posto nella scuola". Questa è la recisa opinione di Valter Deon 1981:233, che continua: "E ciò per varie ragioni: la prima che viene in mente è che le finalità di uno "studio del dialetto" sono sempre state esterne al dialetto stesso: o il dialetto consolatorio o il dialetto come campo di coltivazione della speranza o il dialetto-museo. O ancora: il dialetto per socializzare gli alunni o per cercare di frenare la morte di un mondo ormai alla fine; o anche, in modo più raffinato, per dimostrare la restrittività delle sue possibilità comunicative o, all’opposto, per ricrearne le suggestioni, quasi cifrario per la culla, la mamma, la saggezza del nonno…". Se queste osservazioni sono fondate, ecco allora che, come dice M. A. Cortelazzo 1984:40, "…la richiesta che qualcuno fa oggi di insegnare il veneto a scuola ha da una parte il sapore di una dichiarazione di agonia del veneto (e la scuola verrebbe a corrispondere alla sala di rianimazione), dall’altra una valenza di simbolo, più che di efficace strumento di salvaguardia del veneto".

Il problema quindi è molto complesso e non sopporta "folklorismi", "ideologismi" o dilettantismi di sorta.

Da determinati principi democratici per l’insegnamento linguistico, come le Dieci Tesi del 1975, possono nascere approcci diversi alla trattazione del dialetto a scuola, tutti ugualmente legittimi, anche se non tutti egualmente applicabili in ogni situazione scolastica, che sulla base di M.A. Cortelazzo 1986 enumeriamo come segue:

Approcci diversi alla trattazione del dialetto a scuola

a) insegnamento del dialetto in quanto lingua

b) dialetto come "bene culturale" da scoprire, o da recuperare, assieme ad altri beni legati alla storia e alla cultura locali

c) dialetto come codice veicolare di fatti ed esperienze relativi agli ambiti della cultura locale

d) dialetto come codice veicolare nel quale si trasmettono tutte le nozioni oggetto d’insegnamento

e) dialetto come sistema linguistico sul quale riflettere, dal punto di vista:

- sociolinguistico

- contrastivo

- storico-comparativo

D’altra parte, come sostiene ancora M.A. Cortelazzo 1986, la scuola è l’ultima tappa che un "dialetto" deve percorrere per raggiungere lo status di lingua

Tappe che un "dialetto" deve percorrere per raggiungere lo status di lingua

a) accrescimento dei domini di applicazione nello scritto e nel parlato

b) diffusione attraverso la radio e la televisione

c) unificazione ortografica

d) unificazione della norma scritta ed eventualmente orale

e) solo come ultimo gradino c’è "l’attenzione alla lingua nelle associazioni (anche e soprattutto in quelle che non hanno fini linguistici) e nell’attività giovanile, particolarmente nella scuola"

Invece, ad esempio, l’analisi contrastiva dialetto-italiano in aree dialettofone permette di fare riflessione grammaticale su una lingua in più rispetto a quelle utilizzate a scuola, ed è utile:

a) per avviare una terapia dell’errore dovuto all’interferenza

b) per individuare i campi nei quali la riflessione linguistica può proficuamente utilizzare anche la competenza dialettale degli alunni

Ecco perché ritengo ancora condivisibili le opinioni che espressi qualche mese fa in un’intervista volante resa al quindicinale vittoriese L’Azione, che qui riproduco

Cosa ne pensano gli esperti di dialettologia dell’iniziativa della Provincia di Treviso per l’insegnamento del dialetto a scuola? Abbiamo interpellato Stefano Mazzaro, trevigiano, insegnante ed esperto di dialettologia. "Sono piuttosto scettico! — risponde Mazzaro — Oltre che problemi per le strutture o per le persone che dovrebbero esercitarlo, l’insegnamento del dialetto si trova a dover risolvere quello della ‘macrodiglossia’, cioè della contaminazione reciproca tra italiano e dialetto. È un problema scientifico. Non è ancora chiarito in quale rapporto i due domini debbano stare tra loro: o di separazione tra italiano e dialetto, che nel Veneto è però impossibile; oppure puntando ad

una "koinè" istituzionalizzata, artificiale, che farebbe torto sia all’italiano che al dialetto. Prima andrebbe quindi definito uno status delle due lingue e poi, ed è difficile, in che modo possano stare insieme".

Mazzaro esprime perplessità anche sul significato che assumono talune iniziative legate al dialetto: "Non vorrei che la riscoperta del dialetto fosse strumentalizzata per motivi politici o ideologici. Fino a un po’ di anni fa il dialetto doveva essere rifiutato, ora deve essere rivalutato… magari sconfinando nel folklore.

Da una parte c’è il rischio di sopravvalutare il dialetto: lo si recupera come il dialetto della coscienza, della famiglia, del cuore, dell’autenticità, e non è vero! Oppure viene sottovalutato incosciamente perché si pensa sia una lingua degradata, che deriva dall’italiano: invece ha una sua evoluzione originale, e deriva dal latino.

"Non dobbiamo poi dimenticare che il dialetto è una lingua viva che si evolve, che assume caratteristiche diverse a seconda dell’area geografica, dell’età, della condizione socio-economica. Addirittura, in una stessa persona che lo parla, cambia a seconda dell’interlocutore o dell’umore".

Per Mazzaro gli interrogativi e i dubbi vanno quindi oltre: "Perciò dobbiamo chiarire di quale dialetto parliamo: del dialetto arcaico dei nostri nonni - che non esiste più — o della ‘koinè’ che si sente usare oggi? E poi è da definire chi siano i nuovi utenti del dialetto. Chi l’ha detto che c’è gente che lo vuole imparare? Non vorrei che cercassimo di imporre dall’alto, anche con fini nobili, il recupero di qualcosa che non interessa nessuno. Chi l’ha detto che effettivamente ci sono genitori che vogliono per i loro figli il recupero del dialetto? Ma se c’è tanta voglia di insegnare il dialetto, che glielo insegnino loro a casa, non c’è bisogno della scuola! D’altra parte nella nostra realtà è diffuso il costume di molti genitori che tra loro parlano in dialetto e poi con i figli parlano in italiano. Penso piuttosto alla formazione sul territorio di operatori culturali preparati e in grado di stimolare gli enti locali alla "scoperta", dignitosamente scientifica, del complesso reticolo su cui si fonda la cultura locale."

L'ITALIANO NEL VENETO (ITALIANO REGIONALE E POPOLARE)

Luciano Canepari con l'opera Lingua italiana nel Veneto. Seconda edizione, Padova 1987, ha circoscritto e definito i significati di italiano regionale e di italiano popolare. Secondo Canepari, 30, i due concetti "generalmente sono legati, e conviene farli emergere per contrapposizione coll'italiano standard" ed è meglio quindi "procedere separatamente ai tre livelli d'analisi: vocabolario, grammatica e pronuncia".
Talvolta il singolo parlante non conosce la forma lessicale standard normale e perciò la rimpiazza con la forma che conosce meglio e cioè quella del proprio dialetto, italianizzandola più o meno nella pronuncia e nel comportamento grammaticale. Talvolta, al contrario, il parlante insicuro, quando è in dubbio se una forma presente nel dialetto sia accettabile in italiano, tende a sostituirla con una corrispondente non presente nel dialetto. Perciò spesso cascare, faccia, scancellare sono sostituite per ipercorrettismo da cadere, viso, cancellare.
Per quanto riguarda la pronuncia, secondo Canepari, 31, "è regionale ciò che deriva dall'influsso diretto o indiretto dei dialetti di sostrato e/o di adstrato. Ciò si riferisce sia alle caratteristiche trasportate nella lingua direttamente dal dialetto, sia a quelle ottenute come risultato, comune a molti parlanti, nel tentativo d'allontanarsi dagli elementi dialettali o sentiti (erroneamente) come dialettali". Invece la pronuncia è popolare quando "le peculiarità d'esecuzione, individuale o anche collettiva, sono determinate da influssi analogici con altre forme, spesso senza nessuna relazione concreta. Rientrano in questa categoria gli spostamenti d'accento, le sostituzioni di gruppi consonantici poco comuni con altri più familiari e frequenti, l'uso atipico di consonanti doppie e semplici o di vocali spesso legati a influssi di false etimologie, più o meno inconsce".
Anche a livello grammaticale sono regionali quei fenomeni che dipendono direttamente o indirettamente dal dialetto e che non hanno un'estensione areale molto ampia. Inoltre è importante per definire tale livello anche l'opinione degli ascoltatori: se i corregionali "accettano" un determinato fenomeno grammaticale ed invece gli eteroregionali lo sentono come "strano", esso può essere definito regionale.
Sono rilevanti nel giudizio anche i parametri di frequenza, diffusione e tipicità. Quindi, secondo Canepari, sono regionali (o anche areali) usi come *Sono dietro a scrivere, *Se potessi facessi / *Se potrei farei per Sto scrivendo, Se potessi farei, anche se generalmente queste forme sono evitate da persone di media cultura. Sono invece nettamente popolari quelle peculiarità grammaticali che sono indipendenti dal dialetto, e che vengono determinate invece da formazioni analogiche su altre parole regolari. Canepari, 33, cita ad esempio forme come *vada(no), *stàsse(ro) per vada(no), stésse(ro), sul modello di badi(no), vari(no), restasse(ro), bastasse(ro).
Anche i concetti di modalità, stile, registro, collocazione sono determinanti per definire gli usi linguistici regionali, per non parlare degli enunciati mistilingui e degli inserti dialettali nell'italiano regionale o popolare. Rilevante è pure la condizione di consapevolezza del parlante: se questa esiste, le forme dialettali (o sentite come tali) in questione vengono comunicate con determinate caratteristiche paralinguistiche.
Quindi entrano in gioco nell'analisi e nella classificazione tutti i fattori della variazione sociolinguistica, pragmalinguistica, geolinguistica e statistica, tenuto conto anche del fatto che "per i dialettofoni che usano l'italiano, il dialetto è una continua fonte d'interferenza sulla lingua, per trasposizione d'elementi e per influssi analogici, che tendono a generalizzare anche determinati meccanismi col risultato di semplificare […] le strutture della lingua stessa" e, al contrario, anche dell'esistenza del procedimento opposto: l'ipercorrettismo, che fa sì che "il parlante sia portato a evitare e reprimere le forme dialettali, non ritenendole corrette e adeguate, anche quando queste siano comuni alla lingua. Ma generalmente il parlante non lo sa o, se lo sa, ritiene che gli ascoltatori possano non saperlo, per cui giudica più sicuro non mettersi nella condizione di poter essere giudicato un 'incolto ignorante'" (Canepari, 35).

CLASSIFICAZIONE DEI DIALETTI DEL VENETO

Il dominio veneto non coincide con gli attuali confini della regione amministrativa ma "copre buona parte della moderna nozione storico geografica di 'Venezia' (in pratica coincidente con l'Italia nord orientale), non senza ulteriori espansioni" (Zamboni 1989:198). Di esso fanno parte dunque, secondo le indicazioni di Zamboni:
1) i dialetti del Veneto amministrativo, distinti in veneziano e varietà lagunari (cui si riallacciano i dialetti di Grado e di Marano Lagunare e in parte anche il bisiacco monfalconese, amministrativamente friulani), veneto centrale (vicentino padovano polesano), occidentale (veronese), nord orientale (trevigiano feltrino bellunese);
2) il trentino centrale (urbano e del circondario), con le varietà arcaizzanti di trapasso al tipo ladino, e il trentino centro meridionale, orientato verso il veronese; le subaree orientali della Valsugana e di Primiero sono ancor più nettamente venete (rispettivamente vicentina e feltrina );
3) le varietà delle amfizone (trentino cadorino friulane) e i tipi veneti di esportazione o 'coloniali' (Friuli, Trieste e Istria, Dalmazia, veneto dell'area albanese e greca), in parte estinti. Nel quadro generale della storia del veneto non sono trascurabili inoltre le numerose varietà e commistioni delle colonie sparse in Italia e nel mondo intero;
4) sia pure con aspetti e caratteristiche particolari non si debbono infine sottrarre al diasistema storico del veneto (vale a dire alla sua disposizione originaria) i dialetti arcaici ('preveneti') dell'Istria mediana e meridionale (questi ultimi preferibilmente designati come istrioti o, nella letteratura scientifica che intende sottolinearne l'autonomia nel seno della Romània, istroromanzi).

Un esempio di classificazione basato su un fenomeno fonologico e fonomorfologico: i foni interdentali
Trumper ha tipologizzato il diasistema consonantico veneto individuando sette sottosistemi.
Il primo e piu' semplice (cioe' quello della koine') e' privo dei foni interdentali e copre tutta la fascia urbanizzata del Veneto centrale, da Venezia a Verona (attraverso Padova e Vicenza) e sulle direttrici Padova-Rovigo, Venezia-Treviso, Vicenza-Bassano, e anche Venezia-Udine.
Il suo "contraltare storico" (Zamboni), il sottosistema 'classico' ad interdentali abbraccia tutti i dialetti rurali delle province di Padova, Vicenza, Treviso, Belluno; i dialetti rurali veneti del Trentino; determinati dialetti rurali intorno a Portogruaro sui confini con la provincia di Pordenone.
Un terzo sottosistema a costrittive forti /ts/, /dz/, (per cui nella pronuncia, ad es., di "cinque" sembra quasi di sentire una zeta: tsinkue), una variante considerata piu' "urbana" rispetto a quella ad interdentali, e' molto importante nel liventino. Infatti esso caratterizza, oltre ai piccoli centri suburbani delle province di Rovigo e Verona, la Valsugana, il Trentino, anche i piccoli centri urbani della provincia di Treviso (Vittorio Veneto, Conegliano) e soprattutto i dialetti della Livenza (TRUMPER 1977:277-279). Sul piano fonematico l'interdentale sonora [D] si trova in condizione di allofonia rispetto alla dentale /d/ in quanto i derivati storici dell'interdentale hanno distribuzione simile in posizione debole (fra sonanti). Tuttavia per quanto riguarda il gruppo trevigiano-bellunese, e a differenza del gruppo centrale "padovano", bisogna distinguere due livelli: a livello fonemico esiste solo il fonema interdentale sordo /T/, trovandosi i foni [d] e [D] in distribuzione complementare; a livello morfofonemico, invece, va fatta una distinzione fra il morfofonema /D/ ed il morfema /d/, evidente nella neutralizzazione del contrasto sorda/sonora in fine di parola, per cui in trevigiano-bellunese si ha freDa ma fret (con l'arcifonema /T/ da /d/), meDa ma meT (con l'arcifonema /T*/ da /T/) (TRUMPER 1972:25-27).

 

I CONFINI DIALETTALI

IL CONFINE LINGUISTICO TRA VENETO E FRIULANO
Tradizionalmente i dialettologi collocano al fiume Livenza la separazione storica dei dominî linguistici veneto e friulano, almeno per quanto riguarda la loro base storica.
Si tratta di un'opinione che ora e' in via di riconsiderazione poiche' concordemente si riconosce che questo corso d'acqua mal si presta a costituire una netta barriera etnico-linguistica (ZAMBONI 1986:617 e 1988a:215).
La Livenza segna comunque per consolidata tradizione la linea divisoria tra l'area storica d'insediamento dei Veneti, il cui ultimo grosso centro si trova ad Oderzo (Opitergium), e quella dei Gallo-Carni, priva di cospicui aggregati urbani in epoca precedente alla romanizzazione.
Ma, secondo Zamboni, il panorama storico e soprattutto quello attuale della neolatinita' dell'area non ricalcano esattamente il quadro di fondo.
Ne' il corso della Livenza ne' il confine amministrativo corrispondono ai confini linguistici fra veneto e friulano.
Lo studioso qualifica come fenomeni piu' macroscopici di discordanza i seguenti:
a) il contatto veneto-friulano sulla fascia di confine occidentale (la cosiddetta amfizona, in senso stretto o lato);
b) l'espansione storica del veneziano, che ha creato una vasta gamma di tipi 'coloniali' nei centri urbani e nella Bassa friulana e ancor piu' nel tergestino e nell'area giuliano-dalmata in generale.
Tralasciamo quest'ultima questione ed anche i contatti (storici) fra veneto e friulano lungo la fascia montana (comelicano, cadorino, gortano, fornese, ertano, cellinese).
Occupiamoci della zona compresa fra le sorgenti della Livenza (Polcenigo, Aviano) ed il mare.
Ebbene, l'andamento del confine veneto-friulano e' complicato e mal descrivibile in termini di semplici isoglosse.
Alla relativa chiarezza del contatto alto bellunese-friulano (ertano e cellinese) si contrappongono infatti le profonde interferenze che cominciano dalla zona prealpina e si allargano nella pianura (lungo il sistema fluviale Meduna-Livenza), col bellunese e il trevigiano dapprima, col veneziano verso il mare poi, dove storicamente e' (o era) friulana buona parte del mandamento di Portogruaro (ZAMBONI 1988).
Infatti anche localita' pienamente venete, come ad es. S. Stino di Livenza, dimostrano si' una assoluta concordanza lessicale col dominio di appartenenza ma fanno emergere qualche eccezione, che potrebbe essere la spia di una diversa realta' passata.
CORTELAZZO 1982 segnala le seguenti forme che S. Stino ha in comune col friulano:
croat "corvo", verus-cio "rosolia", nadain "ciocco di Natale", codoa' "strada selciata", coa "pavimento della stalla", corleta "filatoio", lavador "asse da lavare".
Alcuni di questi lessemi pero' sono presenti anche ad Oderzo (o a Belluno) tanto che qualcuno pensa anche ad un centro irradiatore opitergino.
Ma altre forme di S.Stino e di Corbolone piu' rustiche, come ospedar "sbadigliare" o zare "vaso per lo strutto", sono prettamente friulane e diffuse ad Aviano, Tramonti di Sotto, Barcis, Fanna, Azzano Decimo, Cordenons, Poffabro, Vito d'Asio, Ronchis.
Quindi si puo' perlomeno supporre che la zona del portogruarese sia (stata) percorsa da correnti lessicali contrastanti, venete e friulane.
Ne costituisce un esempio la resa del termine "chicchi di granturco abbrustoliti"; dall' ASLEF emergono due risposte, il tipo "confetti" (a) ed il tipo "signore" (b), con questa distribuzione:
Mansue' (b), Corbolone (a,b), Gorgo (a,b), Lugugnana (a), Chions (a,b), Cordovado (a,b), Ronchis (b).
L'indagine svolta dallo studioso tedesco LUDTKE 1956, volta a stabilire il confine veneto-friulano, individuo' una fascia che va dalle sorgenti della Livenza fino alla laguna di Caorle e che segna in realta' un confine sociolinguistico, poiche' si inserisce tra due zone monolettali (in cui si parla o veneto, o friulano) come zona bidialettale (con un patois locale friulaneggiante e una koine' veneta).
Egli traccio' il confine sulla base dell'esistenza o meno nelle parlate locali di una serie di fenomeni fonetici, morfologici e lessicali, tipici del friulano e assenti nel veneto, fra cui i piu' importanti sono i seguenti:
- dittonghi discendenti in sillaba aperta (del tipo krous "croce", neif "neve"; fouk "fuoco", pei "piede");
- dittonghi ascendenti in sillaba chiusa (fier "ferro", puorta "porta");
- palatalizzazione di /ca/ e /ga/ (cian "cane", gial "gallo");
- conservazione dei nessi con /l/ (blank "bianco", klaf "chiave", flor "fiore");
- innovazione dei nessi antichi /qu/ e /gu/ (kel "quello", lenga "lingua");
- conservazione di /-s/ nel plurale di sostantivi e aggettivi femminili, e nella seconda persona singolare delle coniugazioni verbali (feminis "femmine", stas "stai");
- caduta di /-r/ negli infiniti verbali (da "dare");
- conservazione di /-t/ nei participi passati maschili (amat "amato");
- distinzione di due o tre forme del pronome tonico personale (io, me, a mi);
- distinzione fra la seconda persona plurale dell'indicativo e quella corrispondente dell'imperativo (dai tipi latini CANTATIS, CANTATE);
- conservazione del derivato di DE-IRE : gi o zi "andare".
Tale fascia dunque lascerebbe a destra (cioe' al veneto) Sarone, Caneva, Sacile, Tamai, Prata, Pasiano, Chions, Sesto al Reghena, Cinto-Caomaggiore e i paesi vicini al corso inferiore della Livenza; a sinistra invece (cioe' al friulano) Polcenigo, Vigonovo, Fontanafredda, Palse (fraz. di Porcia), le frazioni meridionali di Pordenone (mentre Pordenone citta' e parte dei suoi dintorni sono ormai veneti), Azzano Decimo, Villotta, Bagnarola, Gruaro, le frazioni intorno a Portogruaro, Concordia Sagittaria.
Piu' di recente FRAU 1982 e 1983 ha fornito un'ulteriore precisazione sul confine nell'area di Portogruaro addebitando al friulano -seppur in forme diverse- anche i seguenti comuni: San Michele al Tagliamento capoluogo con le frazioni di S. Giorgio al Tagliamento, Pozzi, Malafesta, S.Mauretto, S.Mauro, Villanova della Cartera, S.Filippo, Cesarolo, Marinella, Bevazzana, Bibione, Baseleghe, Fossalta di Portogruaro, con le frazioni di Alvisopoli, Fratta, Gorgo, Vado, Teglio Veneto capoluogo, e poi, oltre a Gruaro capoluogo, Giussago, Lugugnana, Summaga, inoltre le frazioni o localita' di Concordia costituite da Spareda, Ponte Casali, Bosco Bonassa, via Frassine, via S.Pietro gia' S.Giusto, Sindacale, e via Cavanella.

 

 

LE AMFIZONE

Il concetto di amfizona si applica alla ristrutturazione di domini linguistici neolatini tramite la formazione di una serie di aree marginali di semplificazione sistematica, accompagnata a fenomeni di erosione periferica, in questo caso in seguito a contatto prevalente col veneziano.
Ad una amfizona veneto-friulana in senso stretto, all'interno del dominio linguistico friulano, se ne collega una piu' ampia, definita "fascia di transizione occidentale veneto-friulana" (varieta' che rientra nel 'friulano occidentale' assieme al friulano occidentale comune, al friulano della fascia nordoccidentale del basso Tagliamento, all'asíno, al tramontino e all'ertano), in cui la fondamentale struttura fonologica del friulano non e' piu' completamente riconoscibile (FRANCESCATO 1966).
Secondo il Frau il limite di queste due sezioni correrebbe all'incirca lungo una linea che, da Cordovado, congiunge i paesi di Teglio Veneto, Gorgo, Fossalta di Portogruaro, Vado, Giussago, Rivago, Lugugnana, e che corrisponderebbe al percorso della roggia di Lugugnana, la quale giunge al mare all'altezza di Porto Baseleghe, dopo aver preso il nome di Canale dei Lovi.
In prospettiva diacronica quindi il "diasistema" veneto-settentrionale risulta caratterizzato lungo l'arco alpino, da nord-ovest a sud-est, da ampie zone di transizione, a partire da quella trentina per arrivare sino alle interferenze della fascia planiziale friulano-veneta.
A Nord il trevigiano-bellunese sfuma senza una netta linea di demarcazione nel dominio linguistico ladino centrale, a cui si collega attraverso una vasta amfizona ladino-veneta. Sulla scorta di approfondite ricerche la scuola romanistica e dialettologica patavina ha potuto appurare che "le grandi strutture areali non vanno in senso orizzontale lungo il crinale alpino, ma adattandosi alla disposizione nord-sud delle vallate e dei sistemi orografici, assumono un aspetto verticale (ZAMBONI 1977:103)".
Viene evidenziata quindi con chiarezza la stretta affinita' diacronica esistente tra il veneto settentrionale, il ladino dolomitico-atesino e l'alto trentino e, piu' ampiamente, l'esistenza di una romanita' "italica" costituita da aree venete, trentine e lombarde.
Tale acquisizione, corroborata da recenti e complessi scavi sintattici, ha messo in grave crisi il mito a lungo propugnato dell'unita' linguistica ladina.
Non stupisce pertanto che caratteristiche tipiche del veneto settentrionale antico "si possano ancora ritrovare in aree periferiche conservative nella zona prealpina e alpina, che mantiene spesso fenomeni linguistici (soprattutto il lessico) da tempo abbandonati nelle citta' e nella pianura (PELLEGRINI 1977:357)", o piu' ancora che raccolte lessicografiche in zone isolate del trevigiano settentrionale, come ad es. il Dizionario del dialetto di Revine-Lago, abbiano evidenziato fenomeni cosi' arcaici "da apparire a studiosi inesperti di tali problemi quasi dei trapianti di 'colonie ladine' nelle Prealpi (PELLEGRINI 1982:9)".
Trova ulteriore impulso quindi la necessita' che si continui a perseguire anche il filone "archeologico" della ricerca dialettologica, in uno sforzo di registrazione e recupero di quanto ancora si ignora, e cio' e' tanto piu' vero proprio per la parlata trevigiano-bellunese, in relazione al ruolo fondamentale di snodo che essa ricopre fra i vari domini della Cisalpina.
In particolare l'amfizona ladino-veneta fu esplorata per prima dall' ASCOLI:1873 (il fondatore della dialettologia scientifica italiana) nei suoi Saggi Ladini, e divenne, in seguito, sulla scorta dei lavori di eminenti linguisti quali Salvioni, Battisti e Tagliavini, ma soprattutto di indagini dirette, uno dei terreni privilegiati di studio di G.B. Pellegrini, di cui si citano almeno PELLEGRINI 1947-48; 1954-55; 1982a; e i numerosi studi contenuti nelle sillogi PELLEGRINI 1972, 1975, 1977. Per un bilancio e una approfondita riconsiderazione attuale dei problemi posti dal ladino-veneto cfr. gli Atti del Convegno Internazionale di Belluno 2-3-4 giugno 1983 (PELLEGRINI-SACCO 1984), con gli interventi di Pellegrini, Zamboni, Frau, Croatto, Pallabazer, Rossi, Pfister, ecc.


 

IL DIALETTO TREVIGIANO-BELLUNESE


Se prendiamo in considerazione in particolare il gruppo settentrionale da un punto di vista diacronico (storico), esso e' costituito dal bellunese, dal feltrino e dal trevigiano rustico, con la varieta' liventina e la subarea del Primiero.
Storicamente ha assunto una fisionimia ben definita, molto piu' marcata quando non era ancora fortemente sottoposto alla martellante pressione della koine', mentre, attualmente, i fenomeni piu' conservativi si possono cogliere, nel trevigiano, solo nelle aree appartate.
Il territorio trevigiano costituisce oggi un'area fortemente permeata da particolarita' veneziane.
Attualmente il Piave segna un importante confine linguistico, dato che oltre di esso -nella Sinistra Piave- si trovano i territori piu' conservativi sulla direttrice Conegliano-Oderzo-San Dona'.
Piu' a nord-ovest i fenomeni che caratterizzano questo tipo dialettale cominciano a mostrarsi consistentemente oltre Montebelluna, alla stretta di Quero, che immette nell'area feltrina (con l'appendice primierotta, che amministrativamente pero' e' trentina), cioe' nella zona d'interferenza alto trevigiana-bellunese.
La Val Belluna segna l'inizio del territorio bellunatto vero e proprio (con l'appendice basso-bellunese del circondario di Vittorio Veneto), che arriva a contatto coi tipi ladini dopo Agordo e in Cadore.
Infine, un particolare tipo di trevigiano rustico e' diffuso nella fascia costiera fra Piave e Livenza, fino al Portogruarese, dove si fanno sentire sensibili influssi veneziani: e' questa la varieta' "liventina". Comprende i dialetti posti tra Conegliano, il Piave, la Livenza (e oltre, sino ai confini friulani) e il mare: zone di Oderzo, Mansue', Motta di Livenza; S. Stino di Livenza, S. Dona' di Piave, Ceggia, Portogruaro e Fossalta di Piave.


IL LIVENTINO: CONSIDERAZIONI DIALETTOLOGICHE
Dall'analisi del testo mottense riportato da Zamboni 1974 -di cui prima abbiamo fatto notare l'emergenza di fenomeni di variabilita' nella competenza linguistica- emergono tratti venezianeggianti affiancati a tratti di notevole conservativita' trevigiano-bellunese, caratteristica questa tipica del liventino.
I tratti maggiormente ascrivibili al veneziano sono i seguenti:
- il trattamento di /l/ evanescente (voéa, baeàr, se easén, ecc.; mentre finale kapitel);
- la dittongazione nella serie palatale e in quella velare (píe, ankúo, e sioralo/o con la tipica riduzione /uo/ > /io/ veneziana): emblematiche soprattutto le ricorrenze del verbo "essere" ièra, ierési (in cui compare, pero', il caratteristico /-si/ enclitico);
- il trattamento di CL > [c'] (Becét).
I tratti invece piu' aderenti al patois trevigiano-bellunese, in campo fonologico e della struttura della parola, appaiono questi:
- la caduta delle vocali finali dopo dentale e sibilante (pont, dit, pitost, 'ndat, e tante ben con la vocale /-e/ di ripristino, ecc.; ades, dis);
- la presenza delle interdentali, sorda /T/ e sonora /D/, tratto assai tipico del patois trevigiano-bellunese ed estraneo al veneziano; il fatto che l'informatrice nel nostro testo usi le interdentali e non le sibilanti forti indica un registro piuttosto rustico;
- la chiusura di /e/ protonico in /i/ davanti a palatale: ti si, Bistìa, Biñù.
Per quanto riguarda la morfologia trevigiano-bellunese notiamo:
- il morfema /-e/ di prima persona singolare (ghevée, neghe, aspete);
- l'imperfetto con vocale tematica /e/ nei verbi della prima coniugazione come estensione di -EBA ('ndéa "andava");
- le caratteristiche forme verbali di I e II persona plurale con l'enclitico /-si/ (qui ierési) (su cui v. MARCATO 1990:84);
- la tipica terminazione /-en/ di prima plurale: easén (derivante da un incrocio tra /-emo/ e /-on/;
- il condizionale arcaico in /ae/: baearae;
- la conservazione delle forme originarie (e)l é "è" contro veneziano zé, e del verbo "avere" senza /g/ contro la concrezione del clitico esistenziale ghe "ci" in veneziano, peraltro ancora distinto sino all' 800;
- la forma debole di participio passato s' a ga konparì "e' comparsa", con l'uso dell'ausiliare "avere".
In ambito sintattico -che pure costituisce un livello di analisi privilegiato perche' meno suscettibile di altri di essere toccato dall'influsso esterno, sociale, extralinguistico-, settore fondamentale della linguistica e ora in grande sviluppo anche nella dialettologia italiana soprattutto nel campo dei clitici osserviamo solamente due esempi di inversione dei clitici, secondo l' ordine, rispettivamente:
1) oggetto diretto 2) oggetto indiretto: dighe k el t o dito mi, diversamente dalla forma canonica 1) oggetto indiretto 2) oggetto diretto;
il gia' citato s' a ga konparì, con 1) pronome riflessivo, 2) clitico soggetto).
Ma che il liventino abbia posseduto storicamente tutte le caratteristiche del veneto settentrionale rustico e' confermato sia dalla ricognizione toponomastica (branca della linguistica che, come e' noto, permette il riconoscimento delle strutture antiche di una lingua) condotta magistralmente da ZAMBONI 1983, sia dalla documentazione, praticamente sconosciuta, lasciata nel 1874 dal parroco di Pianzano Giuseppe BAROZZI, intelligente precursore degli studi dialettologici liventini, pur con le inevitabili ingenuita' proprie della sua epoca.
Dunque, Zamboni conferma che le caratteristiche dialettali mostrate dai toponimi esaminati tra Piave e Livenza si confanno esattamente al tipo veneto trevigiano-bellunese (con fenomeni peculiari gia' ribaditi, come la caduta diffusa delle vocali finali e la presenza antica delle interdentali) e lasciano emergere arcaismi interessanti, fra i quali:
- la neutralizzazione del contrasto sorda/sonora in finale di parola (dal Barozzi abbiamo: fret "freddo", spanz [con (z) che indica l'interdentale sorda!] "spande", falz "falce", Alpac "Alpago", spac "spago", os "voce", bef "beve", vif "vive");
- l'esito labializzato del tipo RIVUS > ru;
- resti di metafonesi, specie di contatto;
- l'esito /u/ (< /uo/) da O breve latino;
- dittongazione discendente in sillaba chiusa;
- l'esito iert "erto";
- il passaggio /au/ > /ol/, frequente nel trevigiano antico (Barozzi: calcolsa "qualcosa", olsar "osare");
- la tendenza a dileguo di /-j-/;
- casi di betacismo (Barozzi: bolp "volpe", banpor "vapore", banpa "vampa");
- passaggio /-dj-/, /-gj-/ > /-j-/;
- sincope dell'intertonica davanti a /r/ (Barozzi: lievro "lepre"; e con epentesi, tipica del trevigiano-bellunese, di /d/: vendre "venerdi'", zendre "cenere");
- il passaggio /-n(n)-/ > /-nd-/;
- la caduta di /v/ iniziale di parola (Barozzi: os "voce", olta "volta") ;
- conservazione di /s/ finale nei nomi;
- casi diffusi di epitesi consonantica;
- casi di dileguo, in determinate condizioni, delle consonanti in uscita;
- frequenza dell'ampliamento verbale in /-ejo/ (Barozzi: bestemea "bestemmia"; con ampliamento simile anche nell'imperfetto congiuntivo alla prima e seconda persona plurale: finisesse, stabilisesse, morisesse, sentisesse);
- frequenza delle formazioni di plurale in /-oi, -ai/ < -ONI, -ANI (Barozzi: botoi "bottoni", portoi "portoni", palazzoi "palazzoni");
- la valenza (non accrescitiva) di -O, -ONIS (ad es. Piavon) (Barozzi, come ampliamento verbale: cridonar "gridare", strepitonar "strepitare").
Dal BAROZZI inoltre aggiungiamo (oltre a fenomeni gia' citati, come il morfema /e/ della prima persona verbale e il condizionale in /ae/):
- innanzitutto l'inequivocabile indizio di palatalizzazione di /ka/ (ciapuzzar "inciampare") (20);
- /aj/ > /e/ (egua "acqua");
- /tj-/ > /c'/ (cior "prendere" da *tjol < tuol < TOLLERE);
- caduta di /g-/ (onfio "gonfio");
- /l/ > /n/ (pons "polso");
- /n/ > /l/ (lumero "numero")
- /l/ > /r/ (S. Fris "S. Felice", fragel "flagello");
- /m/ > /n/ (fan "fame", fun "fumo", on "uomo");
- /n/ > /m/ (somet "sonnetto");
- /n-/ > /ñ/ (gnon "nome")
- /g'-/ > /j-/ (jaz "ghiaccio", jan "ghianda");
- /c'/ > /j/ (panoia "pannocchia", reia "orecchia");
- variabilita' e scambio tra /f/ e interdentale sorda ( ferion/zerion "lettiga? bestia da soma?"; nel dizionario di Caneva: thenocio "finocchio" [/th/ indica l'interdentale], thiap "molle, tenero, sgonfio" rispettivamente per fenocio, fiap);
- metatesi (malisandra "salamandra");
- epentesi di /r/ (arcassia "acacia", malamentre "malamente");
- metaplasmi nominali ('l nef "la neve", 'l not "la notte"; la fiel "il fiele", la miel "il miele", la gnon "il nome", la solz "il solco");
- pronome personale tu (ti tu é "tu sei", ti tu a "tu hai");
- metaplasmi verbali (disande "dicendo", ridande "ridendo");
- /-si/ enclitico nella prima e seconda persona plurale dei verbi (erionsi "eravamo", eriessi "eravate", vionsi "avevamo", viessi "avevate");
- /-on/ di prima persona plurale dei verbi (noi altri son "noi siamo", noi altri on "noi abbiamo");
- gerundio in /-ande/, famoso nella storia della dialettogia alto-veneta perche' il Salvioni ne fece uno dei tratti distintivi del trevigiano rispetto al bellunese (magnande, sonande, disande, ridande);
- suffisso /-ot/ (grandot "piuttosto grande", pizzolot "piuttosto piccolo", un pezzot "alquanto tempo", esser in tenpot "essere piuttosto attempatello");
- nel lessico, segnaliamo un gruzzolo di termini racimolati dal Barozzi, moltissimi dei quali trovano preciso riscontro ad es. nella parlata di Caneva (RUPOLO-BORIN 1982), territorio amministrativamente friulano ma linguisticamente "trevisano rustico orientale, con venature friulane concordiesi esterne", secondo la definizione di G.B. Pellegrini: ancoi "oggi", bela "forse", cuca "noce", doi "due", ost "agosto", farsora "padella da friggere", imprumar "usare una cosa per la prima volta", ponder "fare le uova", sgarba "poppa della vacca", strumar "emettere un aroma intenso", asiva "agnella che ha passato l'anno senza figliare", pat "pianerottolo", morona "serto", muzzola "pannocchia di granoturco mai sviluppata, con radi chicchi", petar "percuotere", dindia "tacchina", arbol "albero", sesola "paletta di legno a manico molto corto, usata per i cereali", arar "vivere miseramente penando", corason "cuore", ladin "facile a dire male d'altrui", stela "scheggia di legno", zanche "trampoli", fien de anton "fieno di falce", per amorde "affinche'", starnir "apprestare la lettiera ai bovini", posent "luogo protetto dal vento, e ben esposto al sole", descalz "scalzo", turlindana "drappo sottilissimo da coprire i bambini per difenderli dalle mosche", brega "tavola", brenta "tino", olsar "osare", garnel "semente", magon "stomaco", fondal "tagliere", gardus "maggiolino", ignor "da vicino", ian "ghianda", laip "truogolo", matant "tantissimo", nome' "solamente", razza "anitra", strasegne "grondaie", truscar "cozzare", ucar "urlare", cea "vacca piccola", vanuia "cassamadia ove si scotta il porco", zurlo "trottola", paz "sporco", cair "cadere", mudol "rospo del pantano", pelegren "grembiule", mular "muggire", concol "porca", crot "malato", bondola "salsiccia", inbramirse "gelarsi", cogner "bisognare", comòdo "come", dessedarse "svegliarsi", desmissiarse "svegliarsi", feda "pecora", greme "quanto lascia la bestia dell'erba da mangiare", pander "rivelare", sedel "vaso per mungere", sunar "raccogliere", verta "primavera", van "vaglio", rumar "grufolare", castegna "castagna", pisa "specie di trottola", sculier "cucchiaio", criola "cesta da polli", lor "bianco-bruno", in pè "invece", a una "insieme", buscar "cercare", caiarse "coagularsi", despò "dopo", era "aia", chiz "noce a cui e' difficile estrarre il gheriglio", lazzon "gheriglio", grap "fossa davanti ai cimiteri, coperta di una grata di ferro, per impedire il passaggio ai quadrupedi", incozzarse "sporcarsi", lungar "arrivare", sghirlo "nodo di vento", smalzar "scremare (il latte)", smir "strutto", utia "frasconaia", lenzer "leccare", mas "quantita' di terreno", rinzinar "nitrire", panera "madia", spienza "milza".

IL DIALETTO VENEZIANO

Sulla scorta di Zamboni 1988 intendiamo per "veneziano" il dialetto veneziano lagunare, che comprende il centro storico di Venezia e, con qualche variante, le varietà della parte sud della laguna (Pellestrina e Chioggia), della parte nord (Burano e Treporti), di Caorle e dell'immediata terraferma (Mestre).
Il veneziano è -come sappiamo- la base della koinè veneta. Il sistema vocalico è a 7, con alcune differenze di distribuzione rispetto all'italiano ed alle altre varietà venete. Le consonanti sono 17, composte da occlusive, affricate palato-alveolari, costrittive, nasali, vibranti, laterali e approssimanti.
Una variante nella pronuncia di /l/ rappresenta certamente nel sistema odierno l'elemento più caratterizzante. Del resto attualmente "le varie tipiche realizzazioni del fonema /l/ rappresentano il punto piu' cruciale dei dialetti veneti" (CANEPARI 1979:68). A questo proposito, in relazione al ruolo koinizzante del veneziano, mentre nel trevigiano, soprattutto nei centri maggiori, e ormai in alcuni "paesi del basso bellunese" (MAFERA 1957:177), ci si allinea, con realizzazioni leggermente diverse, alle varianti "attenuate" provenienti dal veneziano, nel bellunese tali varianti di /l/ evanescente (approssimante dorsopalatale rilassata) sono sconosciute e prevale ancora /l/ intatto. Si tratta (come nota PELLEGRINI 1975:109) di una tipica espansione di natura sociolinguistica. Secondo Pellegrini, [l] evanescente prende le mosse dalla lunga conservazione dell'opposizione /l/ ÷ /ll/, ed in seguito dalla pronuncia palatalizzata della doppia che, realizzandosi in pronunce sempre piu' deboli trascino', in base al processo imitativo, anche /l/ semplice.
Quanto alla vibrante /r/, nel veneziano si va da una realizzazione monovibrante ad una approssimante alveolare. E' generalizzata la realizzazione anteconsonantica alveopalatale di /n/. E' tipica poi l'alternanza tra [j] e [dz], ad esempio "maia" versus "magia".
Struttura della parola: la caduta delle vocali finali è limitata ad /e/ dopo n, r, l e ad /o/ nel suffisso lat. -eolu; tale situazione conferisce al veneziano una posizione intermedia tra il veneto centrale (conservatore) e quello settentrionale (eliminatore). Non c'è sincope del proparossitono, ad es.: senare "cenere". Suffissi del tipo -er, -era, contro il padovano -aro. Scarsa tolleranza del nesso -vr-: kàvara "capra". Lessico molto vario e caratteristico; in particolare, è assai notevole il contributo storico del veneziano al lessico italiano, soprattutto nei termini marinareschi.

 


IL DIALETTO VENEZIANO ANTICO
LA LINGUA DELLA "CRONICA" DI DANIELE DI CHINAZZO


La "Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi" fu scritta ai primi del ‘400 dal farmacista mottense Daniele di Chinazzo.
E' possibile parlare di 'dialetto' con competenza scientifica, dignita' e gradevolezza? E' quanto ci proponiamo di fare in questo spazio, aperto a tutti coloro che vorranno usufruirne, a vari livelli, dall' utente interessato e coinvolto all'operatore professionale desideroso di trovare indicazioni rigorosamente scientifiche, anche ad alti livelli di approfondimento. Certo, di "dialetto" si parla fin troppo, ma male. Chiamato in causa per vane rivendicazioni ideologiche, oppure fatto oggetto di scherno e di derisione, raramente il "dialetto" viene valutato nella sua dignita', scientifica e umana, di lingua. Le pur meritorie iniziative di recupero della cultura e della parlata locale sono spesso poco consapevoli, poiche' rimangono confinate nel folclore di una visione estetizzante e nostalgica. Indubbiamente da piu' parti e da parecchio tempo ormai si parla di rivalutazione del dialetto, ma come? C'e' chi ritiene che la scelta dell'italiano o del dialetto sia un fatto puramente ideologico; chi dice che il dialetto basta insegnarlo a scuola come l'inglese, o il latino, magari col laboratorio linguistico; chi entusiasticamente sostiene che entro la letteratura dialettale c'e' gia' tutto quello che serve, eliminando cosi' la dimensione orale del dialetto; chi si illude di poter imporre all'abitante della zona vicina la sua varieta' dialettale, perche' -secondo lui- essa e' notoriamente la piu' nobile, la piu' corretta, la piu' bella; chi dice che quando uno scopre com'era bello il dialetto di una volta, pian piano lascia quel mezzo italiano che parla adesso, e torna ad amare la natura, il verde, gli animali... Cosi', dopo che la condizione di monoparlante dialettale e' stata per decenni fatta a pezzi nella considerazione generale, da qualche tempo (ma ormai anche questa moda e' in via di esaurimento) si e' assistito ad un affannoso affaccendarsi intorno al "dialetto". Spesso gli operatori culturali locali lamentano la scarsa partecipazione della gente alle loro iniziative sul recupero del dialetto, senza rendersi conto che in questo recupero formale, in queste imposizioni dall'alto di "parole", la comunita' non riconosce se' stessa ma la curiosita' immotivata di chi fa questo tipo di ricerca, riducendo una lingua ad un repertorio di parole e ad un'accozzaglia di proverbi. Ogni intervento culturale che non parta dal rispetto e dalla conoscenza del dialetto come strumento di comunicazione e di cultura, ma lo concepisca come una sorta di letteratura degli incolti su cui mettere le mani ottiene questi risultati, le cui conseguenze si ritorcono contro la comunita', accusata di disinteresse e scarsa partecipazione. Percio' gli operatori si sentono poi autorizzati a propinare ben altre offerte culturali, "liberate" dalle "incrostazioni" dell'ingombrante bagaglio della cultura popolare. Eppure il "dialetto" in Veneto e' una presenza costante, una lingua viva di comunicazione alla quale quasi nessuno e' estraneo; boccheggia ma non affoga, perche' il processo di morte del "dialetto" e' quantomai complicato. Ma il parlante non e' piu' capace di dominarlo: quando lo parla non se ne rende ben conto; quando non lo vuole parlare esso salta fuori, magari maciullato e triturato, ma inestirpabile; e anche quando crede di parlare "italiano", bene che vada parla italiano "popolare" o "regionale". Talvolta il parlante ha stupita consapevolezza che il "dialetto" e' cambiato nel corso degli anni e che egli stesso non lo parla piu' come prima. Talvolta e' folgorato persino dalla sensazione di non parlare allo stesso modo in tutte le situazioni, ma di variare il linguaggio -impercettibilmente, o in maniera apprezzabile, o macroscopica- a seconda che comunichi con i figli, o con amici, o con estranei dialettofoni, o con italofoni; a seconda che assuma un atteggiamento formale o informale; a seconda che sia rilassato o teso, divertito o preoccupato, contento od adirato. La continua commutazione di codice tra "dialetto" e "italiano", perlopiu' inconsapevole e incontrollabile, produce nel parlante un alto tasso di enunciati mistilingui, e quindi insicurezza linguistica; cio' induce spesso il parlante a vergognarsi delle sue capacita' linguistiche ed innesca il processo dai piu' alti costi umani che possa subire una persona: cercare di liberarsi della propria identita' culturale e sociale, ripudiandola con vergogna. Del resto anche l'interlocutore che parla italiano di fronte ad un dialettofono si sente a disagio: da una ricerca effettuata nel 1986, relativa soprattutto alla realta' veneta (G. MARCATO, in AA.VV., Guida ai dialetti veneti, VIII, Padova 1986, p.155-202), risulta che l'italiano crea talvolta sfasature anche pesanti tra gli interlocutori. Ne nasce un imbarazzo reciproco, che si tenta di superare con adattamenti di codice: si vive il disagio di chi teme che il proprio atteggiamento sia giudicato in maniera negativa. La sensazione di essere dei pesci fuor d'acqua, di fare la figura dei 'saputoni' , di essere considerati superbi, spingono talvolta a parlare dialetto, alla ricerca di un contatto umano piu' saldo, perche' si percepisce la necessita' di abbandonare l'italiano abituale per adeguarsi alle abitudini e alle conoscenze della persona con cui si sta conversando. Il modo migliore per dominare queste situazioni consiste nella conoscenza delle dinamiche reali che governano il rapporto tra i vari codici linguistici nella nostra societa', per ottenere un uso consapevole della propria lingua, senza imbarazzi, infingimenti, stati di disagio, prendendo atto di quello che si e', col giusto orgoglio della cultura di cui si e' espressione e con l'eventuale, cosciente, processo di miglioramento delle proprie capacita' linguistiche nella direzione voluta, senza vergogna e condanne. Un 'sano' bilinguismo (cioe' un bilinguismo accettato, riconosciuto e voluto), capace di esprimere padronanza del dialetto quando si vuole, e dell'italiano quando si vuole, e' forse la migliore condizione linguistica augurabile, anche se in Veneto, per i motivi che vedremo, essa non e' facilmente raggiungibile. Ma la persona che voglia occuparsi del dialetto in maniera avveduta , come dovrebbe percepirlo? Dalla ricerca citata, effettuata su un campione di persone che hanno dimostrato effettivo interesse per il dialetto, emergono almeno cinque ottiche diverse, che pero' non si escludono fra loro. Per qualcuno il dialetto e' una 'piccola lingua', strettamente legata all'ambiente di provenienza del parlante e per questo connotata positivamente, immediata, quotidiana, efficace, simbolo di unita' e di condivisione. Per altri il dialetto e' importante per il suo significato culturale, in quanto patrimonio specifico di una comunita', segno della sua identita' culturale e sociale. In altri ancora prevale la dimensione intima e affettiva del dialetto, radicato nel nucleo piu' profondo della propria personalita': lingua del cuore, del ricordo, delle emozioni, degli anni giovanili, dell'evasione. Qualcuno sottolinea invece la sua funzione comunicativa, ancora viva, e ne mette in luce il valore strumentale di lingua tipica della cultura orale, fondata sul rapporto diretto. Un quinto gruppo infine mette in rilievo il significato etnico del dialetto, come rappresentante dei valori di un popolo, il mezzo attraverso cui si ritrovano le proprie radici col passato ed il proprio status presente. In tutte le definizioni e' chiara l'allusione alla dimensione orale del dialetto, percepito come fatto profondo di cultura, non sradicabile dal context sociale e culturale in cui si sviluppa, e non scindibile dalla personalita' di colui che lo parla e dall'assoluta individualita' e compiutezza che esso rappresenta. Inoltre, dalla ricerca in questione, compaiono altri interessanti rilievi. Si occupano di dialetto, in maniera rigorosa e consapevole, non soltanto un'omogenea categoria di persone che lo padroneggia con sicurezza, ma anche altre categorie per le quali il dialetto e' stata un'acquisizione successiva. Molti di costoro hanno giustificato la scelta di 'imparare' il dialetto con esigenze di comunicazione, col bisogno di 'trovarsi meglio con la gente', di 'poter comunicare senza essere o mettere a disagio', di 'convivere nella comunita' senza sentirsi diversi'; altri hanno posto l'accento sulla comodita', l'espressivita', la curiosita' o l'interesse anche scientifico suscitati dal 'dialetto'. Sono tutte motivazioni, come giustamente osserva la Marcato, che hanno la possibilita' di essere attendibili solo se sullo sfondo si immagina una comunita' linguistica che del dialetto fa ancora un uso vitale e quotidiano. Questo spazio riservato al dialetto -e piu' in generale a tutti gli ambiti della cultura locale- nasce con queste motivazioni e per tutti coloro che si riconoscono in queste motivazioni; si propone inoltre di affrontare ogni questione riguardante il rapporto tra codici linguistici diversi in Veneto con la necessaria rigorosita' scientifica -senza la quale ogni discorso sul dialetto e' fuorviante- venendo incontro alle esigenze di quanti, anche per motivi professionali (insegnanti, operatori culturali, studenti universitari che preparano esami o tesi di linguistica, filologia, dialettologia) cercano informazioni sicure, suggerimenti metodologici, bibliografia precisa ed accurata. Soprattutto questo e' uno spazio aperto al dibattito, a chi ha qualcosa da dire sul dialetto in un rapporto fecondo e stimolante, e a chi ha delle domande da fare a cui sinora non ha mai trovato risposta: a tutti -nel modo piu' rigoroso e scientifico possibile- si rispondera'. Per vedere se e' possibile parlare di 'dialetto' con dignita', competenza e gradevolezza!

IL DIALETTO MOGLIANESE

Potremmo definire il dialetto di Mogliano 'una parlata trevigiana molto venezianizzata', quasi 'un veneziano di terraferma', strettamente correlato con l'italiano regionale con cui viene spesso a contatto e interagisce nei frequentissimi casi di enunciati mistilingui.
Quindi, ad esempio: la vocale atona finale /-e/ cade solo dopo /n, r, l/ (paron, missier, euminal), /-o/ cade nei nomi derivati col suffisso latino -eolu (ninsiol 'lenzuolo').
La metafonia è praticamente assente (mentre nel padovano rustico possiamo avere ad esempio nissui 'lenzuola', fasui 'fagioli').
I pronomi e aggettivi possessivi tonici sono: mi, ti, eli, ela, lu, nialtri, nualtri, naltri, vialtri, vualtri, valtri, lori, lore; mio, tuo, suo, nostro, vostro, suo.
I verbi sono a quattro coniugazioni, del tipo magnar, aver, bévar, dormir. Ad esempio: indicativo presente di magnar:
mi magno

ti ti magni

eu el, éa ea magna

nialtri magnemo

vialtri magné

eori i, eore e magna

Nella II e III persona singolare e nella III plurale il verbo è obbligatoriamente preceduto da un pronome atono ti, el, i.
La desinenza di I persona plurale nell'indicativo presente è /émo/, o /ìmo/ nei verbi della IV coniugazione. Il condizionale è in /ìa/: magnarìa.
Particolarità verbali: stago 'sto' come vago 'vado', togo 'prendo', digo 'dico', dago 'do'; /avér/ è sempre contraddistinto da allomorfi /gav/ versus /g/: go, ga, ga; gavemo, gavé, ga (g- corrisponde all'italiano ci).
Non c'è tendenza alla sincope del proparossitono: munega 'monaca', senare 'cenere', manego 'manico'.
Suffissi: -ariu, -aria > -èr, -era contro padovano -aro; -eolu > -iol: bavariol 'bavaglino'; -ellu > -èo: fradeo 'fratello'; scarsa tolleranza del nesso -vr-: càvara 'capra'.
Il lessico è molto vario; citiamo da Zamboni, ad esempio: caìgo 'nebbia', giossa 'goccia', sopa 'zolla', bisata 'anguilla', folpo 'polipo', masaneta e moeca 'granchio', scioso 'chiocciola', mussato 'zanzara', sciavo 'scarafaggio', musso 'asino', armeìn 'albicocca', articioco 'carciofo', bisi 'piselli', naransa 'arancia', persego 'pesca', cortìo 'cortile', carèga 'sedia', pitèr 'vaso da fiori', farsora 'padella', piron 'forchetta', goto 'bicchiere' gorna 'grondaia', còtoea 'sottana', fuminante 'fiammifero', stramasso 'materasso', intimèa 'federa', traversa 'grembiule', tirache 'bretelle', marangon 'falegname', sartor 'sarto', piovan 'parroco', nonsoeo 'sacrestano', cheba 'gabbia', copo 'tegola', versor 'aratro', viscia 'frusta', curame 'cuoio', àmia 'zia', bocia 'ragazzo', moroso 'fidanzato', putèo 'bambino', sàntoeo 'padrino', butìro 'burro', figà 'fegato', eugànega 'salsiccia', tocio 'sugo'.

 

INDIVIDUALITA' DEL CISALPINO

I fenomeni - soprattutto fonetici- che caratterizzano il cisalpino (l'italiano settentrionale), condivisi anche dalla koine' veneta, sono fondalmentalmente : a) la lenizione delle consonanti sorde intervocaliche -che in casi estremi porta al dileguo-, ivi compresa la costrittiva /s/ che si realizza sempre come sonora; b) lo scempiamento delle geminate, sia pure scaglionato per classi (dapprima le occlusive e le costrittive, e a distanza di alcuni secoli, le nasali, le liquide e le rotate); c) lo sviluppo postmedioevale dei nessi con /l/ (soprattutto /kl, gl/ > /c', g'); d) lo sviluppo ad affricate dentali (e poi eventualmente a costrittive) di Ce,i, Ge,i; nella morfologia, ad es.,: e) la desinenza di I plurale con varie realizzazioni tutte contrastanti col tipo toscano /-iamo/; f) la formazione del condizionale in /-ìa/ dall'imperfetto HABEBAM (ma non nei patois in cui prevale il tipo con HABUI).

 

INDIVIDUAITA' STORICA DEL DIALETTO VENETO

La koine' veneziana gia' all'inizio del '400 dominava in Veneto nella produzione scritta (con notevole attrazione verso il toscano), ma presentava, nell'ambito della sua appartenenza al cisalpino, dei caratteri tuttavia autonomi.
Infatti al complesso dialettale veneto viene riconosciuto, a differenza degli altri complessi cisalpini, una situazione di fondamentale 'agallicita'', definita in particolare dai seguenti fenomeni:
a) assenza di vocali 'turbate' (anteriori arrotondate);
b) assenza dell'anteriorizzazione di /'a/ in /e/;
c) assenza della palatalizzazione di /kt/;
d) assenza (tranne delle tracce, ad es., nell' altoveneto) della dittongazione di /é, ó/ in posizione forte;
e) assenza dell'apocope generalizzata (a differenza invece dell'altoveneto), con condizioni assai vicine al toscano;
f) assenza di interventi drastici sulle vocali deboli interne ( a differenza, ancora una volta, almeno in parte, dell'altoveneto).

Ecco perche' questa semplicita' del sistema strutturale veneto (soprattutto nelle vocali), che lo colloca a minore distanza dal toscano rispetto agli altri gruppi cisalpini, ha favorito il sorgere di una koine' padana medioevale venetizzante.

 

RIPARTIZIONE DIALETTALE ALL'INTERNO DEL DIASISTEMA VENETO.

IL CASO DELLE INTERDENTALI
Sulla base delle dinamiche di cui si è precedentemente parlato i patois vengono attirati generalmente verso i piu' vicini centri d'attrazione in modo tale che, ad es., nell'ambito del gruppo dialettale veneto-settentrionale, Belluno e Feltre irradiano modelli in qualche punto diversi, all'interno di un sistema pressoche' identico.
Oppure -citando un caso a noi piu' vicino, e ancor piu' eclatante perche' situato in una zona maggiormente esposta alla koine'- la citta' di Treviso presenta una parlata cittadina (anch'essa tuttavia in regresso di fronte all'avanzata dell'italiano regionale) molto simile al veneziano e molto diversa dai centri minori come Conegliano, Vittorio Veneto Oderzo e Motta, che costituiscono i punti d'incontro per le parlate della cosiddetta "sinistra del Piave". A loro volta queste parlate sono provviste, rispetto ai centri di Conegliano, Vittorio Veneto, Oderzo, Motta, di notevoli tratti rustici, anche se -in apparenza paradossalmente- sono piu' vicine al centro d'irradiazione della koine'.
Ma esiste allora , sempre, un centro propulsore delle innovazioni al quale gli altri dialetti veneti, prima o poi obbedirebbero?
Probabilmente, nella lunga durata, i dialetti "periferici" dovrebbero effettivamente essere investiti da tale dinamica. In realta', la koine' stessa e' destinata a diventare sempre piu' italiano regionale e sempre meno dialetto.
E comunque non dobbiamo pensare che altri sistemi dialettali veneti -al di la' del veneziano- non abbiano tentato di resistere all'omologazione operata dalla koine': trasformandosi essi stessi in un "piccola koine' alternativa" in grado di aggregare altri sistemi minori e di riscuotere favori presso le zone laterali vicine.
Emblematico in questo senso e' il caso delle interdentali (sorda /T/ e sonora /D/).
A Venezia non si e' mai pronunciato Tinkue "cinque", mentre in molte altre zone del Veneto, e per molti secoli, le interdentali - il tipo Tinkue invece di sinkue, il tipo meDo "mezzo" invece di mezo- hanno riscosso notevole successo. Vi erano due veri e propri sistemi a confronto.
Ora, infine, il sistema delle interdentali ha ceduto alla koine', ormai il tipo sinkue trionfa su Tinkue, anzi la pronuncia interdentale e' considerata proprio il tratto forse piu' rustico e arcaico del dialetto, assolutamente da evitare e oggetto di derisione.
E anche la terza possibilita' che si era sviluppata -anche e soprattutto nelle zone "liventine"-, cioe' la pronuncia a costrittiva dentale forte, quasi affricata, del tipo tsinkue, e' ormai in regresso sotto l'incalzare della pronuncia di koine'.
Questi fenomeni di ristrutturazione e di ottimizzazione delle grammatiche dialettali avvengono all'interno di sistemi linguistici.
Allo scopo riprendiamo in considerazione le interdentali, tratto assai tipico anche del veneto-settentrionale ed esito derivante storicamente da C e G davanti a vocale palatale, da J e dai nessi CJ, GJ, TJ, DJ.
Nel 1985, uno studioso americano Edward Tuttle ha spiegato in termini di pressione strutturale l'evoluzione della coppia interdentale.
Secondo Tuttle la pronuncia apicoalveolare (tipica ora dei dialetti veneti) di /s/ e di /z/ (rispettivamente [s'] e [z']), arretrata rispetto alla pronuncia corono-dentale dell'italiano standard, sarebbe molto antica poiche' ha assorbito la coppia costrittiva alveopalatale */'s÷'z/, presente nell'inventario neolatino cisalpino.
In quanto primaria, cioe' derivante da S-/-SS- e -S- rispettivamente, la coppia /s'÷z'/ costituiva la coppia di costrittive fondamentali non marcata, e anche nel sistema veneto si distingueva dalla coppia arretrata */'s÷'z/ (da -SSJ- e -SJ- rispettivamente), che subi' la sorte anzidetta.
Poiche' nel Veneto le affricate palatali /ts'÷dz'/ (da CL, GL, LJ) non si erano ancora sviluppate quando avvenne questa fusione, il sistema delle fricative e delle affricate del veneto antico, da cui si svilupparono le interdentali, si potrebbe ricostruire cosi':

ts (ts')
dz (dz')
f s'
v z'


Quando comincio' la semplificazione delle affricate si sarebbero presentate due possibilita' (che provo a schematizzare):


I possibilita' (sottosistema veneziano)

1) 2) 3)
ts °
dz °

s' s s' °Ò s'
z' z z' °Ò z'

Si crea, dapprima, una nuova coppia costrittiva anteriore dentale accanto a quella antica piu' arretrata (2); ma le due coppie sono troppo vicine per una opposizione fonematica duratura e dopo qualche secolo l'opposizione /s÷z/ e /s'÷z'/ si fonde a favore della coppia arretrata (3).


Ma c'era una seconda possibilita', manifestatasi su un territorio veneto assai piu' vasto:

II possibilita' (sottosistema ad interdentali)

1) 2a)

ts °
dz °

s' T s'
z' D z'


oppure:

2bi) 2bii)

°
°

s s' TÐ ° s'
z z' DÐ ° z'

I continuatori di /ts÷dz/ avanzano a interdentali, ottenendo un'opposizione piu' spiccata rispetto alle antiche costrittive di base, con un processo, o diretto, di dentalizzazione immediata, per il sovraccarico potenziale dell'asse costrittivo (2a), o attraverso il passaggio a /s/ e /z/ (2bi), avanzate poi a /T/ e /D/ sotto la diretta pressione di /s'÷z'/.
Quindi, in quanto la coppia /s'÷z'/ ha spinto, in forma diretta o indiretta, per massimizzare i tratti distintivi tra fonemi, Tuttle non accoglie l'ipotesi di Trumper - secondo la quale le articolazioni [T] e [D] si sarebbero riscontrate anticamente anche a Venezia citta' come fase iniziale che avrebbe preceduto la fase /s÷z/ -, proprio perche' si sarebbe trattato di un avvicinamento tra coppie di fonemi che altrove si faceva di tutto per allontanare.

 

IL DIALETTO TREVIGIANO-BELLUNESE STORICO

 

Si possono scorgere tuttora alcune specifiche varieta' dialettali venete che sono il riflesso, benche' un po' impallidito, di una situazione medievale di confini piu' marcati (che opponevano un veneto centrale, "padovano", a uno settentrionale "trevigiano-feltrino-bellunese", e questi due al veneziano, che in origine era una varieta' marginale e di problematica formazione).
Se prendiamo in considerazione in particolare il gruppo settentrionale da un punto di vista diacronico (storico), esso e' costituito -come si è detto- dal bellunese, dal feltrino e dal trevigiano rustico, con la varieta' liventina e la subarea del Primiero.
Storicamente esso ha assunto una fisionimia ben definita, molto piu' marcata quando non era ancora fortemente sottoposto alla martellante pressione della koine', mentre, attualmente, -come già ribadito- i fenomeni piu' conservativi si possono cogliere, nel trevigiano, solo nelle aree appartate.
I tratti caratterizzanti tale gruppo si ritrovano soprattutto nei testi degli autori eglogistici in patois del '500, come il notaio bellunese Bartolomeo Cavassico o il nobile trevigiano Paolo da Castello.
I fenomeni piu' significativi individuati nei testi antichi di area veneto-settentrionale sono i seguenti:

- la caduta generalizzata delle vocali finali;
- la presenza di dittonghi discendenti (tousa, morousa);
- la dittongazione in sillaba chiusa (biel, piet);
- numerosi casi di metafonia, cioe' di chiusura di /o/ in /u/, e di /e/ in /i/, davanti a palatale (ugi, pedugi);
- la palatalizzazione di /ka/ e /ga/ > /c'a/, /g'a/ (cian, giate);
- la desonorizzazione /-v/ > /-f/ della labiale finale (ciaf, Plaf);
- i plurali in /-ói/ e /-ai/ (villai, boi, paroi);
- la conservazione di /pl/ (Plaf, plaser);
- la conservazione di /-s/ finale nella seconda persona singolare dei verbi (has);
- l'uscita in /-ón/ nella prima persona plurale dei verbi;
- la presenza del pronome tu;
e altri fenomeni significativi ricorrono nell'opera del feltrino settecentesco Vittore Villabruna:
- il dileguo di /v-/ iniziale (os, Etór);
- la palatalizzazione dei nessi /tj/ e /dj/ (mescier, bangiera, gies);
- l'uso di /gu/ per /v/ (ciguil, traguai);
- il passaggio /a/ > /e/ dinanzi a palatale (schegn, calchegn);
- la vocalizzazione della labiale finale in /-u/ (Piau).

 

FILOLOGIA DEI TESTI DIALETTALI ANTICHI

 

Lo scenario di trasformazione linguistica impegna le indagini dialettologiche investendo vari campi disciplinari.
Dunque, che senso ha, oggi, quando disponiamo di sofisticate tecniche di ricerca sul campo, utilizzare testi letterari antichi a fini dialettologici? Non sarebbe meglio lasciarli alla storia letteraria o, qualora non rivestano alcuna importanza in tal senso, trascurarli del tutto?
Non e' un rilievo ozioso perche' sul problema della dequalificazione della ricerca dialettologica antica hanno espresso la loro preoccupazione anche celeberrimi specialisti e studiosi come, ad es., Alfredo STUSSI, Filologia veneta, in AA.VV., Scritti linguistici in onore di Giovan Battista Pellegrini, Pisa 1983, p.341-355, il quale afferma che "la storia dei dialetti italiani (comunque la si intenda) tuttora e' spesso terra di nessuno dal punto do vista dell'annessione ad un ambito disciplinare: e' rifiutata da chi considera la dialettologia disciplina esclusivamente sincronica e orientata alla ricerca sul campo con, al massimo, strumentali retrospezioni; ma non e' del tutto pacifico nemmeno il suo diritto di cittadinanza all'interno della storia della lingua, salvo che per i primi secoli, quando i documenti del volgare si sogliono chiamare 'italiani'".
Tuttavia nella ricerca dialettologica attualmente piu' progredita si conviene che alla descrizione sincronica dei gruppi dialettali e delle dinamiche di cambiamento vada affiancata l'analisi delle testimonianze dialettali antiche -a vari livelli di articolazione e complessita'- destinata a (ri)costituire un generale impulso alla soluzione dei problemi di grammatica storica e di classificazione.
L'obiettivo a cui tendere consiste, in ambito veneto, secondo l'auspicio di Alberto ZAMBONI, Per una grammatica regionale (con particolare riguardo al dominio veneto), in AA.VV., La dialettologia italiana oggi: studi offerti a Manlio Cortelazzo, Tubingen 1989, p.197-208, nella redazione "di una grammatica storica del diasistema veneto comprendente tutti i dialetti antichi e moderni in tutti i loro aspetti" finalizzata ad una sicura tipologizzazione storica del veneto.
I testi letterari dialettali sono quasi le uniche fonti (assieme alla toponomastica) di cui disponiamo per tentare di estrapolare qualche dato utile alla caratterizzazione di una parlata nei secoli scorsi.
Con testi cinquecenteschi si opera in condizioni privilegiate perche' solo in questo secolo si raggiunge la consapevolezza che ormai c'e' una lingua letteraria comune valida per tutta l'Italia, e solo ora comincia a fiorire una letteratura dialettale 'riflessa' in cui consapevolmente si cerca di riprodurre con qualche fedelta' la parlata popolare, anche se questo genere di composizioni e' spesso esposto al rischio di ipercaratterizzazioni o di parodia.
Prima del '500 gli sporadici tratti locali rimangono annegati entro preponderanti forme di koine' regionale o interregionale, utilizzate con intenti nobilitanti, per cui le forme linguistiche tipicamente municipali affiorano solo ove si adoperi coscientemente il mistilinguismo o il patois come elemento caratterizzante: eminente e precoce testimonianza ne offrono la Canzone di Auliver ed il sonetto 'tarvisinus' della tenzone trilingue nel canzoniere di Nicolo' de' Rossi per l'ambito trevigiano, ed il celebre Ritmo del XII secolo per quello bellunese.
Ma sull'effettiva possibilita' di utilizzo della produzione antica (almeno sino a tutto il ''700) aleggia la pregiudiziale filologica dell'edizione sicura dei testi, tuttora incerta in ambito veneto, come pure incerta ne risulta, in molti casi, la localizzazione e la classificazione tipologica.
Stussi ha notato che "dialettologi e linguisti moderni spesso si accostano ai testi antichi senza quelle precauzioni che i filologi sono abituati ad avere (salvo, beninteso, commettere peccati, magari ben piu' gravi, di lesa dialettologia)".
In effetti, testi unanimemente considerati 'difficili' come quelli veneto-settentrionali cinquecenteschi, richiedono una minuziosa cura filologica, anche perche' spesso risulta molto complesso riconoscere gli errori e la stratificazione linguistica addebitabili al copista e alla eventuale precedente tradizione del testo, per non parlare dei gravi problemi che comporta ogni commutazione dal livello grafico a quello linguistico.
Anche sulla corretta esegesi dei testi privilegiati cui si e' accennato permangono serie riserve perche' si sa che la pratica letteraria era prerogativa delle classi culturalmente (e quindi socio-economicamente) piu' elevate e spesso la vita e le opinioni dei contadini fornivano il pretesto per esercitazioni o polemiche letterarie da parte di intellettuali che optarono per il codice di un dialetto rustico prima per scelta stilistica che linguistica, per cui nelle loro opere si registrano fenomeni di interferenza col codice primario che, a livello di lingua scritta, forse era gia' il volgare italiano (o la koine' veneziana?).
Inoltre nell'ambito specifico delle composizioni 'villanesche' cinquecentesche veneto-settentrionali altre questioni discriminanti si aprono.
Per lingua 'villanesca' intendiamo la lingua (letteraria) usata in composizioni eglogistiche (o comunque 'liriche') tendenti ad 'imitare' la parlata rustica trevigiano-bellunese (con tutte le approssimazioni diatopiche, diastratiche e stilistiche che tale definizione comporta).
Alla volta del primo ventennio del '500 -periodo nel quale presumibilmente si colloca l'intera opera di Paolo da Castello e parte di quella del notaio bellunese Cavassico- 'lingua villanesca' non e' ancora sinonimo di 'lingua pavana'.
Allora non era ancora esplosa la grande personalita' del Ruzante, il caposcuola della produzione pavana (ma egli gia' recitava e componeva), tuttavia, come si sa, esiste una notevole attivita' letteraria dialettale 'preruzantesca' fin dal '400, condensata in gran parte negli Antichi testi del Lovarini.
Sappiamo pure, che sull'onda dell'esempio beolchiano, la letteratura pavana si propose come 'alter-lingua' letteraria e che venne "assunta nella consuetudine come lingua emblematica della rusticita' veneta (Tuttle)"; questo e' un filone ben rappresentato anche da scrittori trevigiani, d'origine, come Bartolomeo Orioli, o d'elezione, come Nicolo' Zotti.
Del resto quella dei rapporti tra 'italiano', 'pavano' e dialetto locale trevigiano-bellunese e' un'annosa questione che ha impegnato il Salvioni alla fine del secolo scorso fin dalle illustrazioni linguistiche del Cavassico, e su cui sono tornati, volta a volta, il Mafera, il Pellegrini, ed anche la studiosa ungherese Eva Lax, soprattutto a proposito del letterato feltrino settecentesco Vittore Villabruna.
Occorre quindi grande cautela quando ci si accinge ad un'operazione filologica e dialettologica su testi dialettali antichi.
La condizione ideale per estrapolare le caratteristiche di un dialetto antico da un testo scritto "sarebbe quella di disporre di testi cronologicamente e stilisticamente omogenei e degli omologhi raffronti sincronici (I. PACCAGNELLA, Metodologia e problemi nell'analisi di testi veneti antichi, in AA.VV., Guida ai dialetti veneti, 1, Padova 1979, p.138)" e soprattutto sarebbe necessario agire in maniera parallela in modo, da un lato, di ricavare delle coordinate linguistiche tipicizzanti da testi di sicura collocazione geografica, e dall'altro, di estrarre dai testi quella serie di elementi linguistici che, confermando le coordinate altrimenti note, permette di collocarli in un ambito piu' preciso.

 

L’EDIZIONE CRITICA DEI TESTI DIALETTALI ANTICHI
UN’EGLOGA RUSTICA VENETO-SETTENTRIONALE DEL PRIMO '500: esempio di edizione critica

 



L'egloga in lingua villanesca di Busat e Croch (egloga minore) viene attribuita, dal manoscritto che la conserva, a Paolo da Castello, "nobile de la città di Belluno et cittadino Trivigiano" come recita la rubrica iniziale dell'egloga "maggiore", l'altro text precedentemente noto di questo letterato, e non vi ha dubbio che la responsabilità dell'opera ricada sul medesimo autore dell'egloga di Trotol e Mengela (egloga maggiore) - pubblicata, assieme ai sonetti, da Salvioni 1902-1905 - in quanto le concordanze stilistiche e linguistiche sono inequivocabili.

La composizione si trova a cc. 54v-58v del ms. 1445 della Biblioteca Comunale di Treviso. E’ preceduta a cc. 40v-54r da una redazione dell'egloga maggiore (T), - che si aggiunge, quindi, a quella curata da Salvioni (B) e alla redazione esistente nel ms. 91 della Biblioteca del Seminario di Padova (P) - ed è seguita, invece, da un sonetto, il sesto dell'edizione Salvioni, pubblicato da Contini 1985.

Criteri di edizione

La riproduzione del text è di tipo interpretativo.

La grafia segue quella originale, tranne che per (j) reso con (i), e (u), corrispondente a (v), reso con (v). Ho conservato, quindi, ad es., (y) di voya 56 che qui è introdotto per indicare /j/ semiconsonantica (cfr. Brugnolo: 134-5; Stussi 1965:XXXI), contrariamente a vuoia 3. Sono stati tuttavia distinti gli usi etimologici o pseudoetimologici di (h) integrando direttamente nel text (h) iniziale del verbo "avere" quando mancava, secondo l'uso moderno (e conservando quelle esistenti anche in contrasto con l'uso moderno, per esigenze di distinzione da "essere"), ed espungendo il grafema nella forma del verbo "essere" in cui compariva; inoltre, secondo un uso ormai invalso, ho introdotto (h) con valore diacritico per distinguere la pronuncia velare di /-ge/, /-gi/. L'introduzione dell'interpunzione, delle maiuscole, dei legamenti e le separazioni di parole sono regolati secondo l'uso moderno, ma ho mantenuto nelle preposizioni articolate l'alternanza fra forme staccate e forme unite (cfr. anche Vescovo:29), perché ritengo possibile il verificarsi di condizioni fonosintattiche diverse rispetto alla semplice interpretazione grafica. Inoltre anche nelle congiunzioni composte con /ke/ ho optato per la trascrizione separata nelle forme del tipo che "sicché", anchora que "ancorché", ecc., tranne in "perché", sempre unito (cfr. Tomasoni 1976:135); così anche, ad es., in tal bota 87 "talvolta", per non escludere una possibile interferenza con "botta". Ho introdotto i seguenti segni diacritici:

a) parentesi tonde entro le quali ho sciolto questi segni abbreviativi:

il titulus (trattino dritto) sempre con (n);

p con asta tagliata sempre con p(ar), tranne p(er) nella rubrica iniziale e p(er)dù 97;

d con asta tagliata sempre d(e);

dl con aste tagliate sempre d(el);

ch con asta tagliata sempre ch(e);

q, seguito dal segno simile a 3, tipico del -que enclitico latino, si è sciolto con que: q(uen)to 14, optando per una possibile veracità fonetica;

nra, con segno di abbreviazione in alto: n(ost)ra 26;

la nota tironiana è stata sciolta: (con), sia al vs. 128: (con)zar-me, che al vs. 61: (con)prà;

la linea obliqua nel manoscritto segnala l'abbreviazione del gruppo (er) in int(er)locutori della rubrica;

b) le parentesi uncinate racchiudono le integrazioni, limitate, come si è detto, all'introduzione di qualche <h> etimologico o diacritico, oltre a <'n> 16, m<u>ò 58, Pag<n>uchela 160 e pien<a> 167;

c) le parentesi quadre segnalano le espunzioni, che si riferiscono ai sei versi ipermetri e ad un (h) pseudoetimologico;

d) l'apostrofo indica che sono avvenute elisioni o aferesi; non si è posto nei troncamenti (salvo che per esigenze di distinzione da altri omografi, v. qui sotto), nemmeno nei casi in cui permanga il dubbio se si tratti di elisione o di troncamento della vocale finale trevisano-bellunese: ad es. celest in giuoria 150 (cfr. Tomasoni 1976:134; ma v. Tomasoni 1990:232); lo si è introdotto, tuttavia, nelle apocopi di carattere letterario secondo l'uso stabilito da Contini 1960;

e) l'accento acuto o grave indica rispettivamente la chiusura o l'apertura di /e,o/; a tal riguardo si precisa che /o/ finale accentato è sempre considerato aperto mentre ho introdotto una distinzione per /e/ finale accentata: aperta solo quando risulti dalla riduzione /aj>e/ ed in spè 132, sempre chiusa negli altri casi, in particolare in presenza di dittongo /je/, sulla base di pié 180, tuttora pronuncia più rustica rispetto a piè. La forma verbale è (III e VI persona di "essere") viene sempre riprodotta con accento grave, anche se in alcuni casi sarebbe stato preferibile introdurre l'accento grafico indicante la vocale chiusa, come nel dialetto rustico. L'uso dell'accento è limitato ai polisillabi tronchi uscenti in vocale e a taluni monosillabi, anche ove si renda necessaria una distinzione da altri omografi (v. qui sotto); esso è stato introdotto pure, in sillaba tonica, in presenza di caduta della consonante intervocalica (cfr. Vescovo:28; Contini 1985:293-294) ma non nelle forme del condizionale; inoltre in casi quali fuìs "tu fosti" per rimarcarne la derivazione analogica dalle forme deboli del perfetto e nei pronomi tonici mì, tì per segnalarne l'uso in particolari posizioni. Vanno considerate ossitone tutte le parole uscenti in consonante tranne fóssem 50, fantàstec 115, spavìsich 122, che perciò hanno l'accento, ed alcune normali forme verbali all'infinito quali romper 53, entender 92, paser 200, esser 79, meter 139. I monosillabi omografi vengono distinti secondo questo schema:

de "di"

de' "dei"

"dita"

"dì (giorno)"

di' "dici e di' (indicativo e imperativo di "dire’’)"

da "da"

"dà, danno (indicativo di "dare" )"

ve' "vedi (indicativo di "vedere")"

vê! "veh! (esclamativo)"

va "egli va (indicativo)"

va’ "va' (imperativo)"

mo "ma"

mo' "adesso"

me "mi (pronome personale atono nelle sue realizzazioni)"

me' "mio (in posizione atona)"

"mio (in posizione tonica)"

"mai"

"né"

ne "ne"

en "in"

en' "dentro (<INTUS)"

e "e"

e' "io"

è "è, sono (indicativo di "essere")"

sé' "sei (indicativo di "essere")"

se "se (congiunzione e pronome)"

"sete"

"io so"

"fece"

fe' "fede"

fié "feci"

fiè "fiate, volte"

co, con, cun "con"

co', con', cun' "come"

po' "poi"

"può (indicativo di "potere")"

"fanno (indicativo di ‘‘fare")"

fa "fa (avverbio di tempo)"

fa' "fa' (imperativo di ‘‘fare")"

f) la lineetta unisce tutti i pronomi enclitici col verbo precedente, ad indicarne la continuità grafico-fonetica, e le parole composte, sia fisse che occasionali; indica il raddoppiamento, innanzi a vocale, di (n) nelle proclitiche (cfr. Contini 1985a:20).

g) l'accento circonflesso indica la contrazione nei plurali di parole in /-io/ resi nel manoscritto con (-ij): savî; la contrazione avvenuta nelle forme verbali uscenti in /-ìi/: "io sentii", ecc.; la contrazione dovuta a caduta di consonante intervocalica, ad es., biâ "beata"; distingue "veh!" da altri omografi (cfr. Corti 1961:509).

Ho rinunciato all'introduzione di altri segni diacritici quali, ad es., il punto in alto per segnalare assimilazioni e quelli relativi alla metrica.

Tutti gli interventi sono segnalati in apparato, diviso in tre fasce: con la lettera si richiamano le osservazioni paleografiche, col numero quegli interventi che possono invece possedere una qualche importanza interpretativa nella restituzione del text (per tutti questi ultimi, v. comunque le note di restauro testuale), nella terza fascia si riportano le varianti sostanziali dell'edizione Contò e le emendazioni di Contini (queste ultime tra parentesi quadre).

 

text

EGLOGA {a} IN LINGUA VILANESCA

P(ER) IDEM PAULUM D(E) CASTELLO; INT(ER)LOCUTORI

BUSAT E CROCH, E BUSAT COMENZA:

<B.> S' tu no te inatemasse, vorou ben

dir-te, Croch, cent parole e fuos an pì

p(ar) sbramegar-me una vuoia che <h>è in sen;

e’ te l’ hè voiù dir zà fa assè dì

e sempremè me è vegnù pediment 5

a tal che <h>è indusià p(ar) fina qui.

C. Busat, fradel, e’ son nasù de zent

sì dulinciosa, e che è sì monesella,

che staroo in l'egua p(ar) far un content:

sì che quel che tu vuosi me favella 10

e mì te ascolterè fina a la fin

e po' tu me aldirè dovrar {b} la ochella.

B. La Pagnuchella de barba Buldrin

tu sesi ben, me' Croch, q(uen)to {1} che la ame

e quante fiè g<h>e hè pagà festa e vin, 15

e quanta {2} sé g<h>e porte e quanta fame

p(ar) statufar al dolze me' apetet

e vegnir dondre vuoie e donde brame,

e quanti no(n) dirè bez né marchet

mo trodele, {3} e di' tron an, hè spindù 20

p(ar) far-la zir in pont co(n) copolet;

e, p(ar) quant che me avede e che <h>è intindù,

tu traze p(ar) tirà- la al fato tô

prometan-g<h>e fornir-la de velù.

Tu diesi pur saver che no pur mo' 25

haón comezà a far n(ost)ra amistanza

e {c} che te hè dat quel che donar se pò:

te hè fato sempremè granda alnoranza

e sì te vuoie far fina a la mort,

fin che harè lus in gi [v]uogi e fià in la pa(n)za. 30

Mo, a dir el ver, me par che tu hesi tort

a voler descargar el fato mé:

tu no’1 puos {d} denegar ch(e) me n'< h> è acort.

E, p(ar)qué {e} sepi chiarament que sè

d(e) pel in pont que muò la cossa va, 35

se tu me ascolte un puoc e' te '1 dirè:

tu fuìs un dì, d(e) not, a la so cha'

p(ar) voler-la tantar e dar-g<h>e briga,

ella no el seva, mo una t'enguidà.

Mo quel ch(e) tu volis no(n) havis miga 40

ch(é) la puta no(n) è d(e) quella ma(n),

e lassa pur ch(e) ogni homo al so muò diga:

la me ha zurà, p(ar) la fe' de christia(n),

ch(e) la {4} no[(n)] impresterou la so parsona

a un ch(e) fos {f} fiuol d' un sabatam. 45

Cusì, cu(n') tu la vis bella, l' è an bona

mo, l' è be(n) ver, co {5} la mala zinìa

d(e) altro ch(e) d(e) mal mè no(n) se rasona;

da mo', p(ar) ’ver la mala compagnia,

fóssem senza tuti d(e)l Paradis 50

dondre a tornar haó(n) sì mala via.

Sì ch(e), fard(e)l, me' be(n), te dag < h > e avis

ch(e) tu te puossi be(n) romp(er) la testa,

mo tu no(n) harè mè quel ch(e) tu cris:

tu la puossi guardar a messa e en festa 55

e sguirzignar-la a tuta la to voya, {g}

mo tu no[(n)] harè mè dolza la so agresta

ch(e) m<u>ò ch(e) se la ’vesse d'una truoia;

de hon d(e)l mond e' no(n) hè pì {h} paura

né ch(e) mal me la invie né me la tuoia: 60

e' g<h>e hè (con)prà una bela cintura,

una piliza e, in fina, le camise,

e ogni dì g<h>e do(n) qualch(e)friscura.

C. Busat, tu [h]es mo' Busat, e Busat ise,

e chi te batezà sì havì cervel 65

a tante sbizarie que tu me dise;

me par ch(e) tu favele da matrel,

mo tuto quel ch(e) {i} luse no(n) è or:

àldi-tu quel sonai, car me' fradel?

Tu di' ch(e) Pagnuch(e)la è el to stresor 70

mo, quella, Pagnuchella {j} no inte(n)de,

ch(é) a indivinar no(n) g<h>e ne harè mè alnor.

Le to lasagne è dolz, mo le me ince(n)de

e me dà un Dio-te-salve e una firida

e cusì le bisig<h>e toe se vende. 75

Busat, cutave ch(e) chi se marida

no butasse drié pute i so dener

né zesse cusì là, a la straborida;

tu te puos giuriar d(e) esser maser

de la pì bella femena d(e) villa, 80

ch(é) g<h>e 'n ha invilia fuosi an pì {k} d’ un per;

me par ch(e), cu(n') deset, ela te grilla

ch(e) tu hè pa(n) bianch e sì cerche pole(n)ta

e scàrdoe e tench(e) e puossi haver inguilla:

sì ch(e), vê!, fa' alme(n) sen e te conte(n)ta 85

d(e) quella ch(e) tu hes, ch(é), in fe' d(e) Chrit!,

chi no cognosce el be(n) tal bota ste(n)ta.

E sì te vuoie dir ch(e) zà <h>è be(n) vist

portar le corne in caf a be(n) grameg<h>i

e andar col pilo(n) net, po', an be(n) d(e) trist; 90

hè visto de' gra(n) savî {l} far dei sbrig < h > i

e po' de' gros entender la raso(n):

sì ch(e) guarda mo' be(n) cu(n') tu la sbreg<h>i.

E quest te hè voiù dir p(ar)qué te su(n)

an mì to amic, d'altro che de zanzu(m), 95

ch(é) me recorde el temp ch(e) se ameó(n);

e sì me duol ch(e) tu hesi p(er)dù el lum,

ch(e) è altro ch(e) d(e) i vuogi d(e) la ment,

metan-te drié le spale i bon costum;

 

e sì te vuò be(n) dir: s’ tu no te pent 100

e ch(e) no me(n)di la vita cativa,

tu te morderè anchora i dé co i dent;

tu no hesi miga tant fen né arziliva

né tanta lana tosâ d(e) le fede

ch(e) balar posse cu(n) pì d' una piva; 105

nianch[(e)] tante vit cerpir e' no te vede

ch(e) tu la posse far zir sì par sora,

mo no la durerà tant cu(n') tu crede.

Va' a tendi a i to tosat, in la malora!,

e a lor {6} fares le scarpe e le gonelle 110

se tu puos {m} far che i to visin te alnora,

e lassa zir drié queste gabatelle

chi no ha femena in casa né tosat

ch(e) mena dì e d(e) not cul e maselle.

B. 0 Croch, te sé’ fantàstec o t’ ì mat 115

a tante sbezarie que te alde dir,

chivilò anchora que a 'scoltar su(n) stat;

mo, se '1 no te despiase de sofrir,

e' te vuoie dir cosse ch(e), a la cros!,

da maraveia tu creres morir. 120

No(n) creze ch(e) in quest devers mond fos

hon pì spavìsich de trovar morosa

né ch(e) mè dir se me podes: "moros!",

perqué {n} se ve' la femena fogosa

e dendre {7} ch(e) la trova sora mes, 125

christia(n) no(n) fé mè bistia pì robosa;

e parzò magagnava da mì stes

de no(n) voler (con)zar-me sot d(el) {o} regn

de Amor, ch(e) friz[i] i cuor[e], no carn né pes;

e lu pare ch(e) se ne haves desdegn 130

enn-anema da far la so vendeta

cenza spada, sponto(n) né spè d(e) legn,

e cu(n') fà qui ch(e) vol zir a zeguietta,{8}

ch(e) mette in pont el visch e le bach(e)te,

e sona e aspieta ch(e) i osié se meta, 135

cusì quest chega-sangu faé le rizete

conzar a Pagnuchella su la front

co(n) bié gaban e camese a forette;

 

po', del {p} arest, la faé meter sì in pont

che, pur chi la guardava in la bigota, 140

era in la piturina firì e pont.

E mì, che ere a la festa con 'na frota

de fent villò, Pagnuchella guardave

e me sentî al figà dar 'na gram bota,

e pur mì drié Pagnuchella smirave, 145

e quant pì la smirave una slanguòria

havée en' del piet che asques me stofegave;

ma po' che pur tornà la mea smalmuoria

vardè entre a i vuogi {q} a Pagnuchella e vit

derasiamentre {9} la celest in giuoria: 150

ivilò {r} fié el me' cuor sì fermo nit

che, se me pense, mè lassarla vuò;

par che '1 cuor sì me boia dentre un cit,

che, chi me dà cavale, cavre o buò

e piegole e diner pien un tinaz 155

che la lasas,{s} no saroo a che muò.

C. Biâ la soga che te faés un laz,

Busat, che te picasse p(ar) la gola {t}

po' che tu fes de tì tanto strapaz.

Tu cris che Pag<n>uchela sipia sola 160

quella che tiena in man le freze e l'arch

de Amor: che un chiap de coio(n) dis che sgola,

e che la sipia sola che heba el carch

de tegnir ment de qui che Amor apassa

in un serai a muò i {u} castro(n) in barch. 165

Che, se tu pense quest, tu pense massa,

ché, se 'l foés de Amor pien<a> 'na campagna,

la no(n) haroo le chiaf d' una so cassa.

T' ì an tì d(e) quella ma(n) d(e) sofegagna

che cre' che Amor sipia Domenedié, 170

che pia i fent co' se fà i bet a ragna,

o piegole, molto(n), cavre e stonié?

Sè-tu dondre va Amor? A casa soa,

a crepa-panza, e ben inpì i budié!

Tu ere quel dì passù a muò una scroa, 175

e Pagnuchella te ven entre i vuogi

e Amor te la fichà sot de la coa.

 

Tu no {v} me venderè mè i tuo' fenuogi

que Amor sia Dié, che n' ha mè arco né freza {10}

p(ar)qué el n' ha ma(n) né braz, pié né zenuogi. 180

Me par, Busat, che tu scrize in caveza

mo, s' tu lassasse el vin e le brasole,

Amor no(n) haroo in tì tanta forteza;

tu ves su le somasse p(ar) viole,

mo tu fares co(n') faé la zent altiera 185

che zé a la merda co[(n)] Eros e co(n) stole.

No leverà mè tant la to stadiera

che tu me dag<h>e a intendre to bisig<h>e:

crez che tu cris che nases pur iersera.

Va' a monda a i to tosati de le fig<h>e, 190

ché mi g<h>e 'n son passù p(ar) fina al bech!

No(n) val che a lasagnar tu te fadig < h > e:

tu faresi an tì co(n') fasé Cech

che zé lenza(n)d el cul a le putane;

che mo' te foés cavà gi uogi co {w} un stech! {x} 195

Vorove un mes d(e) sete setemane

a dir-te vilanïa co(n') tu mìlite:

che foés-tu brusà dentre un fas d(e) cane!

Ché, da po' che nascî, zamè no vite

pì gran porchaz de paser fava e broda; 200

che Dio te meta bresai de so site,

e po' te buta, a muò camoz, de croda!

Finis

 

 

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{a} Segue a la vilanes cassato

{b} drovar corretto in dovrar, mediante l'espunzione della prima (r) e l'aggiunta in interlinea

della seconda

{c} Ms. et

{d} (u) in interlinea sopra la (o)

{e} Ms. p(ar) ch(e) sepi que sepi, con ch(e) sepi cassato

{f} Segue fiol cassato

{g} Con (y) da (i) [voia]

{h} Ms. piu con (u) cassato

{i} Segue lusse cassato

{j} Col secondo (1) aggiunto

{k} pi corretto su pu

{l} Ms. savij

{m} puos corretto su fos

{n} Ms. p(ar) ch(e) se que con ch(e) se cassato

{o}Segue rengt cassato

{p} Segue la cassato

{q} (u) in interlinea sopra la (o)

{r} Ms. Iullo col primo (1) da (i)

{s} (1) corretta su (s)

{t} Ms gala

{u} Ms. in con (n) cassato

{v} Ms. no(n) col titulus cassato

{w} Ms. co(n) col titulus cassato

{x} Ms. stech con (h) cassato e poi reintegrato

 

{l} Oltre al titulus vi è il segno abbreviativo /q3/ tipico del -que enclitico.

{2} Ms. quante

{3} Non è chiaro se vi sia un tentativo di correzione della (d)

{4} Ms. lo

{5} Ms. ch(e)

{6} Ms. alor

{7} Nel ms. pare dandre

{8} La (i) è aggiunta

{9} Ms. derasia mentre

{10} Ms. che hema arco ne freza

vs. 4: e che t’ è voiù [te l’he]

vs. 6: per fin a qui

vs. 10: che vuosi [che tu vuosi]

vs. 12: drou(ra)r [dovrar]

vs. 14: quanto

vs. 16: quante

vs. 20: no [mo]

vs. 23: tirarla [tirala]

vs. 26: comenzà [comezà]

vs. 26: una [nostra]

vs. 30: have luz [harè lus]

vs. 39: serà [seva]

vs. 39: tenguida [te 'n guidà]

vs. 44: che lo non

vs. 47: ver che la

vs. 48: sè rasonà [se rasona]

vs. 56: voia [voya]

vs. 58: mo

vs. 58: se le ’vesse

vs. 61: bella [bela]

vs. 62: la camisa [le camise]

vs. 74: e me, da un diò te salve, [e me dà un Dio te salve e]

vs. 76: s’ è maridà [se marida]

vs. 77: drio

vs. 85: al me sen

vs. 86: Christ [Chrit]

vs. 87: conosce [cognoscel

vs. 91: ho [hè]

vs. 96: ament [ameon]

vs. 97: ol

vs. 106: nianche

vs. 106: e no

vs. 112: drio [driè]

vs. 115: o sì mat

vs. 116: t' è aldé [te aldé]

vs. 123: che me dir

vs. 125: dondre

vs. 128: no

vs. 129: frizi i cuore

vs. 131: en anema [enn-anema]

vs. 133:zegnietta

vs. 136: chegasangn [chega-sangu]

vs. 142: co [con]

vs. 144: gran [gram]

vs. 150: derasia mentre

vs. 151: Iullo [Ivilò]

vs. 154: carne

vs. 156: non

vs. 161: tiene [tiena]

vs. 165: a muò castron [muò i castron]

vs. 167: pien na campagna

vs. 174: impì [inpì]

vs. 176: vea [ven]

vs. 177: l’ à fichà

vs.178: non [no]

vs. 179: che hema arco né freza

vs. 188: intendere [intendre]

vs. 190: mandà i to [mondà a i]

vs.195: con

vs. 199: nasì [nascì]

TESTI DIALETTALI ANTICHI VENETO-SETTENTRIONALI

Il testo dialettale veneto-settentrionale più antico è rappresentato dal Ritmo bellunese del 1193: esso ricorda la fortunata spedizione di un gruppo di armati bellunesi e feltrini contro i trevisani, che avevano costruito nella valle del Piave dei fortilizi per tutelare il loro dominio da poco acquisito:

De Castel d'Ard / av li nost bona part.

I lo getà / tut intro lo flum d'Ard:

Sex cavaler / de Tarvis li plui fer

Con sé dusé / li nostre cavaler

Vi si nota la conservazione dei nessi con /l/ (flum, plui), il perfetto di III persona in /-à/ (getà), oltre a con sé dusé, forse la conservazione di /-s/ in sex cavaler, la caduta del vocalismo finale (part, Ard, Castel, fer, cavaler)

Per il trevisano trecentesco abbiamo pochi e brevi testi ma molto significativi per ricostruire la schietta parlata locale: essi sono il sonetto trevigiano del codice colombino di Nicolò De' Rossi e la Canzone di Auliver.
Il sonetto tarvisinus del Canzoniere di Nicolò de' Rossi fa parte di una tenzone tridialettale veneziano-padovano-trevigiana. Eccolo nell'edizione di F. Brugnolo:

TARVISINUS

Sier Guerç e sier çanin, ye pur ge diray

quel che me 'n par, e no las per nesun.

No tençonà plu, cha Dio ge vad' a lay!

Voi sed gnes citadin de boi comun.

An calo mì noela: che senpremay

quist Padeguai e Venèdes caus' à en un!

Ye son Liberal, che sta a Samt Palay:

un fant masclo, anch'ie ve para brun.

çòn a l'ost, maidè, s'el par a voy!

Ye ge farai de ponta e de calcagn,

que diançol, en son de cerpeduye.

Noi seròn tre, diepo ig serà pur doy:

'n i guagnieli!, 'l me no serà tamagn

che ye no 'l sburlo a le brancaduye!


Traduzione
Trevisano: Signor Guercio e signor Zanino, anch'io vi dirò la mia opinione, che non delego ad altri (o: che nessuno può togliermi dalla testa). Non tenzonate più, che Dio vi assista! E sì che siete cittadini di illustri e importanti comuni: Ora tocca a me dire una cosa (fare una dichiarazione): e cioè che questi Padovani e Veneziani non fanno altro che litigare fra loro! Io sono Liberale, che sta a San Pelagio: un giovanotto vigoroso, anche se ho un aspetto un po' sbattuto: E andiamoci alla guerra, vivaddio, se è questo che volete! Io vi terrò dietro in tutto e per tutto, che diavolo, a suon di … potature. Noi saremo tre, mentre loro saranno sempre soltanto due: per i vangeli, non saranno per me tanto grandi che io non possa stenderli non appena li avrò tra le mani!


La canzone di Auliver è trasmessa dal codice Vaticano Barberiniano 3953 che accoglie il Canzoniere del de' Rossi messo assieme verso il 1325-35. La canzone è composta di cinque strofe di endecasillabi, e la disposizione delle rime trova riscontro nella lirica provenzale. Riportiamo solo la prima strofa nell'edizione di G.B. Pellegrini:

En rima greuf a far, dir e stravolger,

(con) tut che deli savii eu sia il men savio,

volgr' il mio sen un poch metr' e desvolger,

ché de ço far ai trop long temp stad gravio;

che l' me conven sul lad dei plangent volger

a cui Amor se mostra fello e sdravio,

che sempre mai li soi destrusse e pugna;

und'eo tengn mat quel ch'in tal ovra frugna;

ché quand el def bon guiderdon recever,

se non de mal aver se po' percever.

Traduzione
Nonostante che io sia il meno savio tra i 'savi', vorrei un po' rivolgere il mio seno ad una rima difficile a fare, dire e modulare poiché di ciò (fare) sono stato da troppo lungo tempo desioso; cosicché mi conviene dirigermi dalla parte di coloro che si lamentano, ai quali Amore si mostra malvagio e traviato ché continuamente i suoi (fedeli) annienta (?) e combatte; per cui ritengo sciocco colui che bazzica in tale attività; infatti, quando deve ricevere buon guiderdone, non si può accorgere d'altro che di aver avuto del male.

 

LA POESIA EGLOGISTICA CINQUECENTESCA VENETO-SETTENTRIONALE

 

Prendiamo in considerazione un sonetto scritto in dialetto trevigiano-bellunese ai primi del '500 da Paolo da Castello, un letterato di notevole importanza a fini dialettologici: fu un nobile trevigiano-bellunese, vissuto fra la fine del '400 e l'inizio del '500, e compose varie opere in dialetto rustico trevigiano-bellunese dell'epoca (per la bibliografia v. MAZZARO 1991).
Questo e' un sonetto che parla, in chiave comico-parodistica, del giudizio universale (lo trascriviamo, con leggerissime varianti, dall'edizione di SALVIONI 1902-5, astraendo da implicazioni filologiche approfondite -su cui v. qualche accenno in MAZZARO 1991- che qui non sono necessarie per il nostro assunto):

Hè pensà tante volte ne la ment
che chi le ombràs sarove un million,
che 'l preve dis che a resussiterón
co' piè, co' man, nas, vuogi, cavié e dent.

E che a son de trombetta incontanent
tutti de trentatrè agn retornerón
a star in chiap a muò castron,
a spittar d'estre grami e chi content.

No'l creze che se drome in compagnia
e leve su a bon' hora senza lum,
e tuoge su una scarpa, e la no é mia.
E lu vorà che zarnona d'un grum
de osse, che sarà d'ogni zenìa,
le nostre gambe, brazze, piè e cossúm.

Po', se un se niega in fium,
e g'ha magnà le man pì de cent pes,
pur a bignarge i det starove un mes.

E qui che muor dal mal frances,
che ge ha magnà, me perdona, l'ordegn,
cugnirà suscittar co' un de legn.


Ne diamo una traduzione:

ho pensato tante volte nella mente
che qui (nell'aldila') le ombre dovrebbero essere un milione,
(e) che il prete dice che resusciteremo
con piedi, mani, naso, occhi, capelli e denti.

E che (il prete dice che) d'improvviso al suono di una tromba
ritorneremo tutti, a trentatre anni,
a stare in mucchio come i pecoroni,
ad aspettare di essere condannati o destinati alla beatitudine eterna.

Non credo che si dorma in compagnia
e (che) ci si alzi di buon mattino quando e' ancora buio,
e (che) si raccolga una scarpa, ... e poi invece non e' la mia.

E (non credo che) Lui vorra' che scegliamo da un mucchio
di ossa, formato (da ossa) di tutte le razze,
le nostre gambe, braccia, piedi e cosce.

E poi! Se uno annega in un fiume
e gli hanno mangiato le mani piu' di cento pesci,
solamente a riattaccargli le dita bisognerebbe starci un mese!

E quelli che muoiono di 'mal francese',
(male) che ha mangiato loro, mi si perdoni, ...l'arnese,
bisognera' che resuscitino con un (arnese) ... di legno!


Come si vede, aldila' della divertente e salace parodia religiosa, sublimata dalla pointe dell'ultimo verso, appare violenta la configurazione linguistica dialettale.
Tra la ricca messe di fenomeni che meriterebbero attenzione, dopo aver accennato cursoriamente ad alcuni, ci soffermeremo in particolare su due.
In tutti i settori emergono tratti interessanti come, ad es.,:
nella grafia:
(ch) per [c'];
(ge) per [ge];
(sc) per [s];
(c) e (z) per le interdentali sorda e sonora;
(ll) grafia ipercorretta, sintomo di incipiente lenizione;

nella fonetica:
-sviluppo condizionato da palatale in hè "ho" (/aj/ > /e/), fenomeno qui, in questo lessema peculiare di Paolo da Castello, caratteristico del patois trevigiano-bellunese;
-iperdittongazione: tuoge, caviè, niega, ecc.;
-apertura di /e/ protonica in /a/ davanti ad /r/: zarnona (<CERNERE);
-sincope di /e/ postonica, con consonante epentetica: estre "essere";
-chiusura di /e/ > /i/ protonica (ma forse qui estensione in sede atona di chiusura di dittongo
in sillaba chiusa!): spittar;
-passaggio di I lunga latina ad /é/ in ordégn, dal lat. parlato *ORDINIU(M);
-chiusura di /ó/ in /u/ promossa da nasale: cossum "coscioni";
-massiccia caduta di vocali finali ( lasciando scoperte, ad es., anche le palatali: agn, legn,
ordegn), che costituisce l'elemento di gran lunga piu' distintivo del gruppo dialettale trevigiano-bellunese rispetto agli altri dialetti veneti;
-desonorizzazione delle consonanti sonore finali, altro tratto assai tipico del gruppo altoveneto: dis, nas (forse anche ombràs "ombre", con suffisso peggiorativo; altra questione, di straordinario valore, sarebbe se /s/ finale fosse riflesso di S latina!);
-palatalizzazione di nasale davanti a palatale: bignar "abbinare, riattaccare", cugnir "bisognare" (con consueta estensione analogica dalle forme personali), agn "anni" (/nj/ > /ñ/), pure questo fenomeno peculiare dell'altoveneto;
-passaggio /-CL-/ > /-GL-/ > [g']: vuogi "occhi" (< *OCLI), esito importante dal punto di vista dialettologico poiche' [g'] e' ritenuto piu' schiettamente rustico del concorrente esito [c'] nelle parlate altovenete;
-perdita della velare: chi "qui" (/ku/ > /k/);
-metatesi di /r/: drome;

nella morfologia:
-metaplasmo di declinazione in osse "ossa", brazze "braccia";
-modificazione del tema: creze "credo" (* CREDJO);
-I persona singolare del verbo in /-e/: creze, e -I plurale in /-on/: resussiteròn, zarnona "cerchiamo" (piu' /-a/ analogico del congiuntivo), caratteristiche del trevigiano-bellunese;

nella sintassi:
-'variatio' sintattica in: a spittar d'estre grami e chi content;
-la locuzione tuoge su "prender su";

nel lessico:
preve ( < prevede) "prete", tipica forma dialettale antica;
bignar "abbinare, riattaccare", dal latino BINI "a due a due", presente a tutt'oggi nei dialetti veneti con la forma non palatalizzata binàr (dai dialetti settentrionali vi e' stato poi il passaggio all'italiano "abbinare");
zarnir (zernir) "scegliere", in italiano voce dotta (ma presente nel volgare settentrionale del XIII sec. di Uguccione da Lodi), trevigiano e bellunese odierni zernir, lombardo scernì;
cugnir "bisognare, essere necessario", padovano, vicentino rustico cognere, bellunese cògner, valsuganotto cognèr, dal latino CONVENIRE "adattarsi", italiano "convenire";
villò "lì" < IBI-LOCO ( o IBI-ILLOC) > ivilò > villò, frequente nel pavano del '500 e, piu' in generale, nel cisalpino (volgare settentrionale);
castron "agnelli (castrati)", tipico del trevigiano-bellunese e del pavano del '500, dal latino medioevale CASTRONE, CASTRONUS.

Dopo questo veloce excursus notiamo in particolare:

1) PASSAGGIO DA /-N/ A /-M/: cossum "coscioni".
Potremmo spiegare tale tratto come fatto grafico ipercorrettivo della tendenza trevigiano-bellunese alla neutralizzazione di /m, n/ in /n/ (interpretazione avvalorata peraltro anche dalla chiusura di /ó/ in /u/).
Tuttavia se assegnassimo a questo tratto una patina piu' di patois che di koine' si potrebbe prestare attenzione alla possibilita', espressa da E. TUTTLE, Un mutamento linguistico e il suo inverso. L'apocope nell'Alto Veneto, "Rivista Italiana di Dialettologia", 5, 1981-2, p.26, n.10, che grafie inverse (-n) > (-m) abbiano potuto avere "veracita' fonetica".
Il fenomeno prenderebbe avvio dalla reazione nei confronti della tendenza di (-n) a cadere dopo aver nasalizzato la vocale precedente.
Le nasali finali /-m/, /-n/ cosi' si rafforzerebbero, neutralizzandosi in [-m], come realizzazione "fortis", secondo lo schema seguente:

0. FAME PANE 0
1. fame pan 1 Apocope dopo /-n/
2. fame pân 2 Nasalizzazione davanti a nasale finale
3. fam pân 3 Apocope estesa anche dopo /-m/
4. fâm pân 4 Nasalizzazione davanti a nasale finale
5. fâm pân 5 Indebolimento consonante nasale
6. fân pân 6 Perdita occlusione bilabiale


Di qui, l'equivalenza tra la forma "allegra" fân e quella "lenta" (o di registro piu' curato e conservatore) fam avrebbe coinvolto anche il tipo pân, creando un'alternanza del tipo:

fân pân
------------- = ------------
fam (pam)


2) CONDIZIONALE IN /-OVE/: sarove, starove.
Paolo da Castello nelle sue egloghe presenta anche forme senza vocale finale (-ou), (-oo), (-o), ad es.,: magnerou, saroo, poro, ma sempre esclusivamente con la vocale tonica /o/.
Tale tratto gli e' assai peculiare e lo differenzia nettamente da tutti gli altri testi antichi trevigiano-bellunesi, che pure hanno gli stessi riflessi di condizionale indigeno rustico da HABUI (o da HABET) (contro i riflessi di koine' in /-ia/, da HABEBAM), ma con vocale tonica /a/, come e' norma anche dell'attuale patois altoveneto.
La forma in /o/ tuttavia non e' del tutto sconosciuta ai dialetti, antichi e moderni, settentrionali: appare, ad es., nel lombardo, nel piemontese e nei dialetti ladini dolomitici; inoltre, nel bellunese Cavassico e nel trevigiano-bellunese rustico attuale, ad esempio a Lamon e in Valcavasia.
Come spiegare allora tale fenomeno, e anche l'alternanza delle forme in esso presente: con vocale finale e col recupero dei tratti di ostruenza della labiodentale /-ove/ (come nel nostro caso); con vocale finale e dileguo della consonante /-oe/; senza vocale finale /-ow/, ed evoluzioni seriori?
E' ormai assodato che /e/ costituisce la tipica vocale trevigiano-bellunese di ripristino, la cui presenza o meno dipende da oscillazioni di natura sociolinguistica.
Non e' difficile quindi supporre che le forme /-ove, -oe/ indichino una ricostruzione successiva, caratterizzata da maggiore prestigio sociale e convivente con /-ow/ su piani di macrodiglossia.
Pertanto la trafila potrebbe essere stata la seguente:

1. /ave/ Da HABUI (o da HABET)
2. /av/ Caduta della vocale finale
3. /aw/ Progressiva perdita dei tratti di ostruenza
4. /ow/ Armonizzazione
4a. /oo > o/ Monottongazione
5. /ove/ Restituzione di /e/ e realizzazione di /w/ come /v/ fra vocali
6. /oe/ Caduta di /v/ intervocalica
6a. /oe/ Restituzione della vocale ad /o/ gia' monottongato.

 

L’EGLOGA DI PAOLO DA CASTELLO (text ALTOVENETO DEL PRIMO ‘500)
L’egloga minore



Riprendiamo a parlare dell'egloga in lingua villanesca di Busat e Croch (egloga minore), scritta da Paolo da Castello, della quale abbiamo mostrato sopra un esempio di edizione critica. Non si sa quasi nulla di Paolo da Castello. Anche in questo caso, nonostante le minuziose ricerche di Conto' negli archivi trevisani, non si e' riusciti ad andare molto aldila' delle notizie che ci provengono dalla rubrica iniziale di (B), sopra riportate.

Comunque, CONTO' 67 ne ipotizza l'appartenenza alla famiglia trevisana Castelli, originaria di Belluno e con esponenti bene in vista nel sec.XV, e ne tenta pure l'identificazione in un "ser Paulo da Castello" nominato in alcuni documenti d'archivio tra il 1498 ed il 1511 come proprietario di terre in zona di Vidor, di case a Treviso nelle contrade di S.Pancrazio e di S.Martino, e come abitante nella parrocchia di S.Giovanni del Tempio. Di tale personaggio sarebbe anche testimoniata una corrispondenza poetica con il veronese Giorgio Sommariva intorno al 1482. Inoltre CONTO' 79,n.27, pubblica anche un sonetto in 'lingua', attribuito a "messer Paolo da Castello", conservato nel ms. Marciano Italiano cl.IX, 203 (=6757), del sec. XVI, a c.80r.

L'egloga di Busat e Croch consta di 202 versi e si snoda come un contrasto a due voci intorno alla tematica amorosa, ove la polemica sulla natura ed il ruolo di Amore e la satira, talora feroce e violenta, agli Asolani del Bembo traspare piuttosto netta: compaiono stilemi in contrasto con la tradizione, già ben sviluppati a cavallo tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo (Lovarini 1894)1 e condensati, poi, nel primo atto della Betìa ruzantiana (Zorzi 1967).

A Croch che lo accusa di essersi invaghito di una ragazza pur essendo sposato, e di trascurare per questo la famiglia, Busat risponde incolpando Amore, personificato secondo la tipica iconografia ufficiale dell’epoca con arco e frecce, e innesca cosi’ la prevedibile risposta parodistica e demistificante di Croch che suona come sberleffo contro la retorica neoplatonica della cultura ufficiale.

Il nostro text si qualifica come una scadente esercitazione letteraria, non esiste azione e non si manifestano spunti drammatici mentre il mondo contadino è tenuto sullo sfondo; tuttavia, oltre a rivestire una notevole importanza linguistica (che è poi il campo specifico del nostro interesse), quest'egloga sembra in grado di fornire qua e là qualche precisa indicazione etnografica e dimostra una discreta familiarità del nostro letterato col mondo rurale.

Ripubblichiamo velocemente il text, stavolta corredato dalla traduzione e dall’interpretazione.

EGLOGA {a} IN LINGUA VILANESCA

P(ER) IDEM PAULUM D(E) CASTELLO; INT(ER)LOCUTORI

BUSAT E CROCH, E BUSAT COMENZA:

<B.> S' tu no te inatemasse, vorou ben

dir-te, Croch, cent parole e fuos an pì

p(ar) sbramegar-me una vuoia che <h>è in sen;

e’ te l’ hè voiù dir zà fa assè dì

e sempremè me è vegnù pediment 5

a tal che <h>è indusià p(ar) fina qui.

C. Busat, fradel, e’ son nasù de zent

sì dulinciosa, e che è sì monesella,

che staroo in l'egua p(ar) far un content:

sì che quel che tu vuosi me favella 10

e mì te ascolterè fina a la fin

e po' tu me aldirè dovrar {b} la ochella.

B. La Pagnuchella de barba Buldrin

tu sesi ben, me' Croch, q(uen)to {1} che la ame

e quante fiè g<h>e hè pagà festa e vin, 15

e quanta {2} sé g<h>e porte e quanta fame

p(ar) statufar al dolze me' apetet

e vegnir dondre vuoie e donde brame,

e quanti no(n) dirè bez né marchet

mo trodele, {3} e di' tron an, hè spindù 20

p(ar) far-la zir in pont co(n) copolet;

e, p(ar) quant che me avede e che <h>è intindù,

tu traze p(ar) tirà- la al fato tô

prometan-g<h>e fornir-la de velù.

Tu diesi pur saver che no pur mo' 25

haón comezà a far n(ost)ra amistanza

e {c} che te hè dat quel che donar se pò:

te hè fato sempremè granda alnoranza

e sì te vuoie far fina a la mort,

fin che harè lus in gi [v]uogi e fià in la pa(n)za. 30

Mo, a dir el ver, me par che tu hesi tort

a voler descargar el fato mé:

tu no’1 puos {d} denegar ch(e) me n'< h> è acort.

E, p(ar)qué {e} sepi chiarament que sè

d(e) pel in pont que muò la cossa va, 35

se tu me ascolte un puoc e' te '1 dirè:

tu fuìs un dì, d(e) not, a la so cha'

p(ar) voler-la tantar e dar-g<h>e briga,

ella no el seva, mo una t'enguidà.

Mo quel ch(e) tu volis no(n) havis miga 40

ch(é) la puta no(n) è d(e) quella ma(n),

e lassa pur ch(e) ogni homo al so muò diga:

la me ha zurà, p(ar) la fe' de christia(n),

ch(e) la {4} no[(n)] impresterou la so parsona

a un ch(e) fos {f} fiuol d' un sabatam. 45

Cusì, cu(n') tu la vis bella, l' è an bona

mo, l' è be(n) ver, co {5} la mala zinìa

d(e) altro ch(e) d(e) mal mè no(n) se rasona;

da mo', p(ar) ’ver la mala compagnia,

fóssem senza tuti d(e)l Paradis 50

dondre a tornar haó(n) sì mala via.

Sì ch(e), fard(e)l, me' be(n), te dag < h > e avis

ch(e) tu te puossi be(n) romp(er) la testa,

mo tu no(n) harè mè quel ch(e) tu cris:

tu la puossi guardar a messa e en festa 55

e sguirzignar-la a tuta la to voya, {g}

mo tu no[(n)] harè mè dolza la so agresta

ch(e) m<u>ò ch(e) se la ’vesse d'una truoia;

de hon d(e)l mond e' no(n) hè pì {h} paura

né ch(e) mal me la invie né me la tuoia: 60

e' g<h>e hè (con)prà una bela cintura,

una piliza e, in fina, le camise,

e ogni dì g<h>e do(n) qualch(e)friscura.

C. Busat, tu [h]es mo' Busat, e Busat ise,

e chi te batezà sì havì cervel 65

a tante sbizarie que tu me dise;

me par ch(e) tu favele da matrel,

mo tuto quel ch(e) {i} luse no(n) è or:

àldi-tu quel sonai, car me' fradel?

Tu di' ch(e) Pagnuch(e)la è el to stresor 70

mo, quella, Pagnuchella {j} no inte(n)de,

ch(é) a indivinar no(n) g<h>e ne harè mè alnor.

Le to lasagne è dolz, mo le me ince(n)de

e me dà un Dio-te-salve e una firida

e cusì le bisig<h>e toe se vende. 75

Busat, cutave ch(e) chi se marida

no butasse drié pute i so dener

né zesse cusì là, a la straborida;

tu te puos giuriar d(e) esser maser

de la pì bella femena d(e) villa, 80

ch(é) g<h>e 'n ha invilia fuosi an pì {k} d’ un per;

me par ch(e), cu(n') deset, ela te grilla

ch(e) tu hè pa(n) bianch e sì cerche pole(n)ta

e scàrdoe e tench(e) e puossi haver inguilla:

sì ch(e), vê!, fa' alme(n) sen e te conte(n)ta 85

d(e) quella ch(e) tu hes, ch(é), in fe' d(e) Chrit!,

chi no cognosce el be(n) tal bota ste(n)ta.

E sì te vuoie dir ch(e) zà <h>è be(n) vist

portar le corne in caf a be(n) grameg<h>i

e andar col pilo(n) net, po', an be(n) d(e) trist; 90

hè visto de' gra(n) savî {l} far dei sbrig < h > i

e po' de' gros entender la raso(n):

sì ch(e) guarda mo' be(n) cu(n') tu la sbreg<h>i.

E quest te hè voiù dir p(ar)qué te su(n)

an mì to amic, d'altro che de zanzu(m), 95

ch(é) me recorde el temp ch(e) se ameó(n);

e sì me duol ch(e) tu hesi p(er)dù el lum,

ch(e) è altro ch(e) d(e) i vuogi d(e) la ment,

metan-te drié le spale i bon costum;

e sì te vuò be(n) dir: s’ tu no te pent 100

e ch(e) no me(n)di la vita cativa,

tu te morderè anchora i dé co i dent;

tu no hesi miga tant fen né arziliva

né tanta lana tosâ d(e) le fede

ch(e) balar posse cu(n) pì d' una piva; 105

nianch[(e)] tante vit cerpir e' no te vede

ch(e) tu la posse far zir sì par sora,

mo no la durerà tant cu(n') tu crede.

Va' a tendi a i to tosat, in la malora!,

e a lor {6} fares le scarpe e le gonelle 110

se tu puos {m} far che i to visin te alnora,

e lassa zir drié queste gabatelle

chi no ha femena in casa né tosat

ch(e) mena dì e d(e) not cul e maselle.

B. 0 Croch, te sé’ fantàstec o t’ ì mat 115

a tante sbezarie que te alde dir,

chivilò anchora que a 'scoltar su(n) stat;

mo, se '1 no te despiase de sofrir,

e' te vuoie dir cosse ch(e), a la cros!,

da maraveia tu creres morir. 120

No(n) creze ch(e) in quest devers mond fos

hon pì spavìsich de trovar morosa

né ch(e) mè dir se me podes: "moros!",

perqué {n} se ve' la femena fogosa

e dendre {7} ch(e) la trova sora mes, 125

christia(n) no(n) fé mè bistia pì robosa;

e parzò magagnava da mì stes

de no(n) voler (con)zar-me sot d(el) {o} regn

de Amor, ch(e) friz[i] i cuor[e], no carn né pes;

e lu pare ch(e) se ne haves desdegn 130

enn-anema da far la so vendeta

cenza spada, sponto(n) né spè d(e) legn,

e cu(n') fà qui ch(e) vol zir a zeguietta,{8}

ch(e) mette in pont el visch e le bach(e)te,

e sona e aspieta ch(e) i osié se meta, 135

cusì quest chega-sangu faé le rizete

conzar a Pagnuchella su la front

co(n) bié gaban e camese a forette;

po', del {p} arest, la faé meter sì in pont

che, pur chi la guardava in la bigota, 140

era in la piturina firì e pont.

E mì, che ere a la festa con 'na frota

de fent villò, Pagnuchella guardave

e me sentî al figà dar 'na gram bota,

e pur mì drié Pagnuchella smirave, 145

e quant pì la smirave una slanguòria

havée en' del piet che asques me stofegave;

ma po' che pur tornà la mea smalmuoria

vardè entre a i vuogi {q} a Pagnuchella e vit

derasiamentre {9} la celest in giuoria: 150

ivilò {r} fié el me' cuor sì fermo nit

che, se me pense, mè lassarla vuò;

par che '1 cuor sì me boia dentre un cit,

che, chi me dà cavale, cavre o buò

e piegole e diner pien un tinaz 155

che la lasas,{s} no saroo a che muò.

C. Biâ la soga che te faés un laz,

Busat, che te picasse p(ar) la gola {t}

po' che tu fes de tì tanto strapaz.

Tu cris che Pag<n>uchela sipia sola 160

quella che tiena in man le freze e l'arch

de Amor: che un chiap de coio(n) dis che sgola,

e che la sipia sola che heba el carch

de tegnir ment de qui che Amor apassa

in un serai a muò i {u} castro(n) in barch. 165

Che, se tu pense quest, tu pense massa,

ché, se 'l foés de Amor pien<a> 'na campagna,

la no(n) haroo le chiaf d' una so cassa.

T' ì an tì d(e) quella ma(n) d(e) sofegagna

che cre' che Amor sipia Domenedié, 170

che pia i fent co' se fà i bet a ragna,

o piegole, molto(n), cavre e stonié?

Sè-tu dondre va Amor? A casa soa,

a crepa-panza, e ben inpì i budié!

Tu ere quel dì passù a muò una scroa, 175

e Pagnuchella te ven entre i vuogi

e Amor te la fichà sot de la coa.

Tu no {v} me venderè mè i tuo' fenuogi

que Amor sia Dié, che n' ha mè arco né freza {10}

p(ar)qué el n' ha ma(n) né braz, pié né zenuogi. 180

Me par, Busat, che tu scrize in caveza

mo, s' tu lassasse el vin e le brasole,

Amor no(n) haroo in tì tanta forteza;

tu ves su le somasse p(ar) viole,

mo tu fares co(n') faé la zent altiera 185

che zé a la merda co[(n)] Eros e co(n) stole.

No leverà mè tant la to stadiera

che tu me dag<h>e a intendre to bisig<h>e:

crez che tu cris che nases pur iersera.

Va' a monda a i to tosati de le fig<h>e, 190

ché mi g<h>e 'n son passù p(ar) fina al bech!

No(n) val che a lasagnar tu te fadig < h > e:

tu faresi an tì co(n') fasé Cech

che zé lenza(n)d el cul a le putane;

che mo' te foés cavà gi uogi co {w} un stech! {x} 195

Vorove un mes d(e) sete setemane

a dir-te vilanïa co(n') tu mìlite:

che foés-tu brusà dentre un fas d(e) cane!

Ché, da po' che nascî, zamè no vite

pì gran porchaz de paser fava e broda; 200

che Dio te meta bresai de so site,

e po' te buta, a muò camoz, de croda!

 

 

INTERPRETAZIONE

La traduzione è il più possibile letterale ed ha il solo scopo di rendere intelligibile il dettato senza alcuna pretesa di inutili tentativi di riscrittura.

vv. 1-6:

"Se tu non fossi troppo occupato vorrei proprio dirti, Croch, cento parole e forse anche di più per levarmi una voglia che ho in seno; te lo volevo dire già da molti giorni ("molti giorni fa") ma mi è venuto continuamente un impedimento da parte di un tale che hai fatto indugiare sino ad ora ("qui")" [accoglierei indusià nel significato transitivo riportato da Prati: 82, s.v. indus'giar: "(trans.) far sì che uno indugi, su una strada" in quanto, oltre a costituire un'interessante variante, la forma verbale <h>è del vs. 6, se appartiene al vb. "avere" non può essere che una I od una II persona (difficile pensare ad una forma analogica di III). Naturalmente si può sempre considerare è voce del vb. "essere", ma si sa che il costrutto dialettale tende semmai a scambiare "essere" con "avere" e non viceversa e quindi qui si tratterebbe di ipercorrettismo: " ... *che è indugiato ... "].

vv. 7-12:

"Busat, fratello, io sono nato da gente così intollerante d'ogni lieve dolore e così arrendevole, che starei nell'acqua per rendere uno contento: perciò dimmi quello che vuoi ed io ascolterò sino alla fine e poi tu sperimenterai la mia parlantina ("mi ascolterai adoperare la loquela")".

vv. 13-24:

"La Pagnucchella di "barba" Buldrin, tu sai bene, Croch mio, quanto l'amo e quante volte le ho pagato divertimenti e vino - e quanta sete e fame ho di lei - per soddisfare il mio dolce appetito ed arrivare dove voglio e dove desidero, e quanti, non dirò bezzi né marchetti, ma tronelle, e aggiungici anche troni, ho speso per farla andare tutta vestita appuntino con i bottoncini; e, per quanto mi avvedo e ho capito, tu ti dai da fare per attirarla al tuo progetto promettendole di fornirla di velluto".

vv. 25-30:

"Tu dovresti pur sapere che non solo ora abbiamo cominciato a coltivare la nostra amicizia e che ti ho dato tutto quello che è possibile donare: ti ho continuamente rispettato e così voglio fare fino alla morte, finché avrò luce negli occhi e fiato in pancia".

vv. 31-38:

"Ma, a dire la verità, mi pare che tu abbia torto a voler liquidare il mio progetto; tu non puoi negare che io me ne sono accorto e, perché tu sappia chiaramente che so per filo e per segno in che modo vanno le cose, se tu mi ascolti un po' io te lo dirò: tu andasti un giorno, di notte, a casa sua per molestarla e darle fastidio".

vv. 39-45:

"Lei non lo sapeva ma una ti ci portò, eppure quello che volevi non l'hai avuto perché la ragazza non è di quel tipo, e lascia pure che ogni uomo dica come crede: mi ha giurato, sulla fede di un cristiano, che non si concederebbe ("presterebbe la sua persona") a uno che fosse figlio di un eretico".

vv. 46-5 1:

"Così come la vedi bella è anche pura ("buona") ma - è proprio vero - con la gente malvagia non si parla d'altro che di malefatte ("male"); da adesso, poiché frequentiamo una cattiva compagnia, magari rimanessimo tutti senza il Paradiso (poiché), per tornare al quale, procediamo per una strada così cattiva! ".

vv. 52-58:

"Sicché fratello, mio bene, ti avviso: tu puoi anche romperti la testa ma non avrai mai quel che credi; la puoi guardare a messa e nei giorni di festa e lanciarle delle occhiate di sottecchi finché ne hai voglia ma non sarà mai dolce per te il suo vinello acido [cioè "non raggiungerai il tuo scopo"] a quel modo come se tu lo ricevessi da una prostituta (‘‘troia")"

vv. 59-63:

"non ho più paura che qualcuno (‘‘uomo del mondo") me la avvii per una brutta strada o me la porti via: le ho comperato una bella cintura, una pelliccia ed, infine, delle camicie e ogni giorno le do qualche regalino (‘‘frescura" cioè "cose piacevoli"; lett. "che dà refrigerio dal caldo")"

vv. 64-72:

"Busat, tu sei ora Busat, e Busat sei, e chi ti battezzò la pensò in questo modo [evidentemente il nome Busat ha una sfumatura dispregiativa, per cui già all'atto del battesimo, in previsione delle sue malefatte, gli fu affibbiato tale epiteto] a causa delle molte bizzarrie che mi dici; mi sembra che tu parli da sciocco, ma tutto quello che luccica non è oro ["non ti fidare delle apparenze"]: capisci questo avvertimento [lett. "sonaglio"], caro fratello mio? Tu dici che Pagnucchella è il tuo tesoro ma lei questo non lo capisce, per cui a tirare ad indovinare (nelle cose d'amore) non ne avrai mai onore" [il vs. 72 non è, per la verità, molto perspicuo: credo si voglia far intendere che l'amore è una cosa seria e bisogna scegliere con oculatezza colei che si vuole amare senza lasciarsi trasportare da superficiali attrazioni; conforta in questo senso un passo del Cavassico (Pellegrini 1977: 306) in cui compare il medesimo stilema: XV,54-60 "Che cossa é duniar; / L'é un indivinar, / Catar d'un cuor/ Doi che se porte amor / E che se vuoia ben / Che n'eba qualche artien / Chi dag(h)e impaz / [ecc.]". Ma non si può escludere a priori la possibilità che indivinar stia per dirivinar "mandare in rovina" che ricorre anch'esso in un passo del Cav. (XIV,43; e v. anche p. 328 il commento del Pellegrini), per cui avremmo: "...a mandare in rovina (i sogni d'amore altrui) non ne avrai mai onore"].

vv. 73-81:

"Le tue ciance sono mielose ma mi irritano, mi fanno male e mi feriscono ("mi procurano una grave malattia [probabilmente la peste, resa con questa espressiva perifrasi ottativa "Dio ti salvi" di carattere gustosamente popolare] ed una ferita") ed in questo modo vengono propinate le tue stupidaggini. Busat, pensavo che un uomo sposato non sperperasse i suoi denari (andando) a ragazze né che si comportasse così, alla disperata; tu ti puoi vantare di essere marito della più bella donna del villaggio, dato che [oppure "per cui"] ti invidia anche più d'un paio (d'altri uomini)"

vv. 82-87

"mi pare che, quando ti svegli, (ella) ti dice brontolando che hai pane bianco [più pregiato] ed invece cerchi polenta, e scardove e tinche e potresti avere anguilla [più pregiata]: [è chiara la metafora: "hai me che sono la più bella donna del paese ed invece ti vai a rovinare con donne di scarto"] sicché, via, riprendi almeno un po' di senno ed accontentati di quella che hai, perché, in fede di Cristo!, chi non sa quale sia il meglio talvolta fa fatica (inutilmente)".

vv. 88-93

"Perciò voglio dirti che ho già visto degli uomini saccenti portare le corna in testa ed andare, invece, con la testa sgombra [senza corna] i furbi; ho visto dei gran saggi far dei (gran) danni e poi degli illetterati dimostrarsi intelligenti ("intendere la ragione"): sicché sta ben attento a come la rovini [la tua vita]"

[qui però potremmo anche, postulando uno scambio tra sbreg<h>i 93 e sbrig<h>i 91, pensare, con quest'ultimo, a "sbrigare" e quindi "...a come porti a termine la faccenda"].

vv. 94-102

"Questo te l'ho voluto dire perché ti sono anch'io amico, nei fatti e non a parole ("non solo nel cianciare"); perché mi ricordo il tempo nel quale ci volevamo bene e perciò mi duole che tu abbia perso il lume (della ragione) che non è altro se non gli occhi della mente, mettendoti dietro le spalle il giusto modo di comportarsi; e quindi ti voglio dire: se non ti penti e non correggi questa vita traviata, ti morderai ancora le dita con i denti; "

vv. 103-108

"tu non hai mica tanto fieno né erba di secondo taglio (cioè "non sei mica tanto ricco") né tanta lana tosata dalle pecore da poter ballare con più di una piva (cioè "da poter sperperare a tuo piacimento"); e non ti vedo nemmeno potare tante viti che tu possa condurre (la tua vita) così al di sopra (delle tue possibilità), (quindi) non durerà tanto come credi."

vv. 109-114

"Bada invece ai tuoi figli, in malora!, e a loro farai [procurerai] le scarpe ed i vestiti in modo che i tuoi vicini ti rispettino, e lascia andare dietro a queste frivolezze chi non ha moglie in casa né figli che menino il giorno e la notte il culo e le mascelle [cioè che "mangino (e quindi "cachino") tutto il giorno", con un'altra tipica immagine popolaresca]"

vv. 115-120

"0 Croch, sei stravagante o sei matto (a giudicare) dalle tante bizzarrie che ti sento dire, sebbene sia rimasto qui ad ascoltarti; ma, se non ti dispiace di soffrire, ti voglio dire cose a causa della quali, per Dio!, ("alla croce!") tu crederai di morire dallo stupore".

vv. 121-126

"Non credo che in tutto il mondo ("universo mondo") ci fosse un uomo più restio (di me) a trovare un'amante né che mai mi potesse venir detto: "tu sei innamorato", perché, se prendi in considerazione una donna focosa ed il genere d'uomo che la trova sopra citato [l'innamorato], un cristiano [un uomo in generale, essere umano contrapposto a "bestia"] non rese mai una bestia così rabbiosa [come una donna appassionata rende rabbioso l'amante]"

vv. 127-141

"e perciò preparavo dei piani dentro di me ("congetturavo, tramavo con furbizia") per non cadere sotto le grinfie di Amore [lett. "decidevo da me stesso di non voler capitare sotto il regno di Amore’’] che frigge i cuori, non la carne e nemmeno il pesce, e lui pare che se ne abbia avuto a male, desideroso di fare la sua vendetta senza spada, puntuale o spiedo di legno, e come fanno quelli che vogliono andare a caccia con la civetta e che perciò preparano il vischio e le bacchette e lanciano richiami ed aspettano che arrivino gli uccelli, così questo figlio di puttana ["cacasangue", epiteto offensivo molto usato negli autori pavani] acconciò i ricciolini sulla fronte di Pagnucchella assieme a bei vestitini (lett. "giacche") e camicie foderate; poi, per di più, la fece mettere così appuntino che, anche chi la guardava castamente (lett. "alla bigotta, come fanno i bigotti") era ugualmente ferito e punto nel petto (dagli strali d'Amore)"

vv. 142-150

"ed io, che ero lì alla "sagra" [festa paesana] con un mucchio di figli, guardavo Pagnucchella e mi sentii dare al fegato una gran botta, e pur tuttavia continuavo (a girarmi indietro e) a guardarla con attenzione, e quanto più l'ammiravo (tanto più) mi veniva un mancamento dentro al petto che quasi soffocavo; ma, dopo che tornai in me (lett. "tornò la mia memoria" cioè "ripresi le mie facoltà) guardai negli occhi Pagnucchella e vidi veramente la celeste visione nel suo fulgore;"

vv. 151-156

"in quella occasione (‘‘1ì") il mio cuore si costituì un nido così duraturo [immagine poetica che paragona l'innamorato ad un uccello che finalmente stabilisce il suo nido] che, se ci penso, non voglio mai lasciarla perché il cuore possa continuare a bollirmi (come) dentro un pentolino ["possa ancora ardere la mia passione amorosa"] cosicché, se qualcuno mi offrisse cavalle, capre o buoi, e pecore e un tino pieno di soldi, affinché la lasciassi, non saprei in che modo (potrei farlo)".

vv. 157-165

"Beata la corda che ti facesse un laccio, Busat, e che t'impiccasse per la gola, dato che ti rovini così ("fai di te tanto strapazzo"). Tu credi che Pagnucchella sia la sola a tenere in mano le frecce e l'arco di Amore - a proposito del quale un mucchio di coglioni dice che vola - e che sia la sola ad avere l'incarico di tenere a mente quelli che Amore rinchiude in un serraglio come gli agnelli ("castrati") nella stalla".

vv. 166-177

"Se tu pensi questo, pensi troppo, perché, se ci fosse un campo pieno di Amore, lei non avrebbe le chiavi nemmeno di una delle sue casse.

[immagine arditamente metaforica per significare l'assurdità del legame tra il dio dell'amore e la donna: come nei versi che seguono è evidente l'intento polemico contro la letteratura "ufficiale" dell'epoca]

Sei anche tu di quella manica (di stupidi) che andrebbero soffocati, i quali credono che Amore sia Domineddio, che intrappola i giovani così come si catturano nella rete i pettirossi o le pecore, i montoni, le capre e gli stornelli? Sai dove va Amore? A casa sua, a crepapancia e ben sazio! ("ben riempito le budella"). Tu eri quel giorno satollo come una scrofa e Pagnucchella ti venne davanti agli occhi e Amore te la ficcò sotto le coperte (nella tua immaginazione)" [oppure "sotto la coda (in senso osceno)"; in ambedue i casi comunque s'intende che Busat la desiderava sessualmente; v. qui sopra N. al text, anche per una possibile altra lezione testuale]

vv. 178-189

"Tu non mi infinocchierai cercando di farmi credere che Amore sia un dio, perché non ha mai arco né frecce [oppure "e che abbia arco e frecce", v. N. al text] e perché non ha (del resto) né mani né braccia, né piedi né ginocchia. Mi pare, Busat, che agisci avventatamente ["scherzi col fuoco" o meglio, più letterale, "scherzi col cappio al collo"] ma, se tu lasciassi il vino e le braciole [cioè "se tu non ti riempissi di vino e di cibo a tal punto da annebbiare i tuoi pensieri ed i tuoi comportamenti"] Amore non avrebbe in te così grande vigore; tu vai sui pavimenti (e non sui prati) in cerca di viole [‘‘fai cose inutili"], e farai come fece la gente superba che andò a finire nella merda (per andare dietro) ad Eros e alle stole [con "stole" si intende, forse, in generale, l'abbigliamento delle donne; v. DELI, s.v. stola]. Non arriverai mai al punto di darmi a bere le tue stupidaggini [lett. "non si alzerà mai tanto la tua bilancia (così da bilanciare la mia incredulità)"]: credo che tu creda che io sia nato solo ieri sera".

vv. 190-202

"Va’ a ripulire i tuoi ragazzi dai fichi ["va’ a prenderti cura di loro"; oppure ‘‘va’ a preservare i tuoi ragazzi dalle fiche" cioè "dalle donne", perché bisogna ammettere che "fichi" appare piuttosto forzato, forse per esigenze di rima] perché io, di questa situazione, ne ho abbastanza! [lett. "ne sono sazio sino al becco"; meno bene forse "che io di queste ("le fiche") ne sono sazio…’’]. Non serve che tu ti affatichi a cianciare: farai anche tu come fece Cecco che andò a leccare il culo alle puttane; che ti fossero levati gli occhi con uno stecco! Ci vorrebbe un mese di sette settimane per dirti tutte le insolenze che meriti: magari tu fossi bruciato dentro un fascio di canne! Perché, da quando sono nato, non ho mai visto un uomo più bramoso (di te) di mangiare fave e brodaglia ["di comportarsi come un maiale"]; che Dio ti ponga a bersaglio delle sue saette e poi ti getti, come un camoscio, da una rupe! "

 

METODOLOGIA DELLA RICERCA TOPONOMASTICA

Bisogna innanzitutto eliminare un equivoco: la toponomastica e' una scienza eminentemente linguistica e percio' chi la pratica deve possedere appunto una salda conoscenza linguistica. Eppure l'indagine toponomastica attrae irresistibilmente qualsiasi cultore di storia locale, e nella ricerca degli etimi si cimentano e si sono cimentati tutti coloro che scrivono libri di storia locale. Ecco perche' circolano ancora opere come "Il Veneto paese per paese" che continuano a fornire e a far accreditare spiegazioni assurde e inaccettabili linguisticamente quali la derivazione di VARAGO da "varie acque" o di CANDELU' da Callis de luto cioe' "contrada piena di fango": si tratta di etimologie proposte da eminenti studiosi locali di fine ottocento come l'Agnoletti ed il Marchesan, grandi archivisti e paleografi ma privi delle attuali cognizioni linguistiche. I loro abbagli sono percio' scusabili ma hanno dato origine, a cascata, alla divulgazione acritica di paraetimologie folkloristiche spacciate per scienza.
Quando pero' dalle etimologie si passa a fruire dell'indagine toponomastica per l'interpretazione storico-ambientale delle varie zone, per trarre e dedurre notizie che spieghino meglio l'evoluzione economica, sociale e culturale dell'ambiente sotto esame, che e' naturalmente il vero scopo della ricerca locale, allora, in questo caso, la toponomastica non e' piu' scienza, neanche per il linguista avveduto; qui ci si muove in un terreno che e' dilettantesco per tutti perche' non vi sono piu' certezze, verificabili scientificamente, ma solo linee di tendenza ed interpretazioni. Quando il toponimo deve dire di piu' e "parlarci" dell'ambiente e della storia, allora veramente la toponomastica risulta ancillare rispetto ad altre scienze storiche ed ambientali, e puo' svolgere solo un ruolo marginale e di supporto; e soprattutto per avere un qualche spazio e una qualche utilita', deve far tesoro interdisciplinarmente di tutte le acquisizioni extralinguistiche offerte dagli altri metodi di ricerca. Spesso anzi e' la toponomastica a dover chiedere aiuto per non cadere in vane mistificazioni.
Quando ci va bene, e cioe' quando il toponimo almeno non ci svia, spesso tuttavia esso non aggiunge nulla a quanto gia' sapevamo di una determinata zona dal punto di vista storico e ambientale. E' il caso, ad es., del toponimo MASERADA. L'etimo e' certo e trasparente: dal latino MACERIA "sasso", e, dopo varie peripezie interpretative, e' ormai divulgata la convinzione che il toponimo si riferisca alle "macerie" per eccellenza di Maserada, e cioe' alle "grave" del Piave, a questa distesa di ciottoli che certamente e' un elemento peculiare e caratterizzante dell'ambiente. Forse, come si vedrà in seguito, il nostro toponimo potrebbe riferirsi non gia' all'ambiente di per se' ma all'impatto che questo ambiente ebbe nell'opera di insediamento dell'uomo. Infatti assegnare un nome ad un luogo e' un'operazione culturale e tale operazione dipende sempre dall'interesse che il luogo designato riveste per le comunita' umane che intendono stabilirvisi; percio' forse il toponimo MACERATA e' sortito dall'opera di dissodamento che costrinse l'uomo a bonificare questi terreni e a raccogliere ed eliminare i "sassi" che impedivano la coltivazione: i mucchi di sassi accatastati, dall'uomo, in un ambiente che ormai rivestiva interesse, per l'uomo, questi si' potevano localizzare il luogo ed essere definiti "MACERIATA" 'mucchi di sassi accatastati agli incroci poderali'. Solo in questa fase, forse, le comunita' umane avevano necessita' di designare un luogo che prima non era oggetto della loro attenzione. Ma si tratterebbe di una disquisizione prettamente linguistica e semantica: infatti che il toponimo MACERATA derivi dai mucchi di sassi, magari raccolti lontano dalle Grave, invece che dalla distesa sassosa in se', che cosa aggiunge alla nostra conoscenza dello sviluppo dell'insediamento? E' chiaro che, anche se i primi coloni avessero designato Maserada a causa delle Grave, comunque avrebbero dovuto operare un'azione di dissodamento per la bonifica della terra e per lo stanziamento. Ed e' altrettanto chiaro che comunque si sarebbero dovuti stanziare in terre "in prossimita'" delle Grave, e non certo al centro di esse su terreni inadatti ed esposti alle morbide del Piave. Non vi e' certo bisogno della toponomastica per acclarare tale stato di cose!
Piu' importante semmai e' sapere che la prima attestazione del toponimo MACERATA di cui possiamo disporre risale al 1091. Tale notizia costituisce almeno un "ante quem", cioe' sappiamo che "almeno" a partire da quell'anno esisteva uno stanziamento con tale nome.
Infatti anche nella toponomastica, come e' intuitivo, le due categorie fondamentali per l'interpretazione storico-ambientale sono lo 'spazio' ed il 'tempo'. Ma, a questo proposito, esistono dei problemi. Come si raccolgono i toponimi che devono poi essere analizzati? Possiamo usare fonti moderne come le cartine dell'IGM, oppure le mappe catastali attuali e gli stradari, ed anche la tradizione orale; oppure fonti antiche come le mappe, i disegni, gli estimi, i catastici e i documenti vari notarili delle eta' comunale, veneziana, napoleonica ed austriaca. In realta' queste fonti vanno censite tutte, cercando di metterle in correlazione tra loro. Pero' con le fonti moderne siamo in debito sul versante del tempo: possiamo bensi' localizzare con certezza i luoghi designati ma non sappiamo a quale eta' risalgano i toponimi. Con le fonti antiche, viceversa, ma purtroppo talvolta con grande approssimazione, possiamo 'datare' determinati toponimi stabilendo almeno dei termini "ante quem" e "a quo", ma non possiamo 'localizzare' quei toponimi, perche' i documenti e i catastici antichi raramente sono accompagnati da carte o mappe, e anche quando queste ci sono, naturalmente si rivelano spesso approssimative o inaffidabili.
Ad es. nei documenti antichi relativi alla zona di Maserada compare spesso un luogo "dicto PAO" (1369), o "PO" (1367); esso ricompare nel 1684 e nel 1700 come "alle buse del PO", e prima ancora, a proposito della peste del 1631, inserito in un "registro dei defuncti" di Varago (attuale frazione di Maserada):

"Die sabbati 13 vero mensis septembris [1631]
Joannes de Georgiis filius quondam coniugum Dominici et quondam Jacobae de ... aetatis annorum circiter 40, aegrotus dies 14 in aedibus D. Josephi Sugana Tarvisini hic Varagi in communione sanctae matris ecclesiae animam Deo reddidit cuius corpus impetiginibus respersum hoc tempore pestilentiae Tarvisij grassantis ex mandato officij sanitatis nocturno tempore post 24 et amplius ab obitu hominis, ad viam Posthumiam, ubi dicitur "alle buse del po'" in regulatu Varagi sepultum est..."

L'etimo di PO dovrebbe essere da POPULUS "pioppo" e il luogo, come si vede, e' interessante sotto il profilo storico: sappiamo che era lungo la via Postumia, probabilmente si e' trattato, perlomeno per un periodo, di un cimitero di fortuna, almeno durante le pestilenze. Ma dov'e' localizzato esattamente? Non lo sappiamo, e forse tale lacuna ci impedira' di trarre osservazioni utili, magari solo aneddotiche ma succose, per un'analisi di storia locale.
Se torniamo invece alle fonti moderne vediamo che il contrario accade per es. col toponimo RONCHI: tutti sappiamo dov'e' il luogo e comunque l'IGM eventualmente ce lo ricorda. Questo si' e' un toponimo assai importante e fruttuoso per la storia degli insediamenti locali, perche' deriva da RUNCUS, RUNCARE e allude alla pratica ben nota del disboscamento per l'insediamento agricolo. Ma a quale epoca risale il toponimo? La linguistica puo' circoscrivere la datazione ma non puo' essere decisiva; infatti si tratta di un etimo di origine latina classica ma che e' rimasto vitale sino all'alto medioevo: ci si riferisce allora ad insediamenti gia' dell'eta' romana o altomedioevali? E' chiaro che a questo punto le altre scienze storico-ambientali devono venire in aiuto alla toponomastica, da sola non puo' piu' procedere con le illazioni. In questo caso pero', con un'analisi veramente interdisciplinare, si puo' dire qualcosa di piu' in un orizzonte scientifico nel quale anche la toponomastica, per parte sua, concorre ad elaborare la ricerca.
Sappiamo infatti che le due grandi epoche del disboscamento e della colonizzazione della pianura padana in generale e quindi anche di queste nostre zone, furono quella della penetrazione romana (Ia.c.-Id.c.) e quella della cosiddetta "rinascita" del Mille. Nel nostro caso il toponimo RONCHI a quale delle due fa riferimento? Dobbiamo richiamare tutto il quadro delle conoscenze storiche ovvie che costituiscono la struttura entro la quale puo' dispiegarsi l'analisi toponomastica.
Sappiamo quindi che in epoca romana questa zona costituiva un importante incrocio di vie di comunicazione: di qui passava la Postumia (Ia.c.); di qui passava, intersecando la precedente a quanto sembra all'altezza dell'incrocio "al zhot mancio", la Claudia Augusta Altinate (Id.c.); qui naturalmente c'era e c'e' il Piave che, col suo regime torrentizio, sara' sempre stato in rapporto dialettico, volta a volta positivo o negativo, con gli insediamenti e le vie di comunicazione; qui, poco piu' a valle, c'e' e c'era la linea delle risorgive, con fontane e fontanazzi in superficie. E' intuitivo per tutti che queste erano condizioni tali da richiamare, anzi da richiedere necessariamente degli insediamenti. Infatti il controllo, la funzionalita' e la manutenzione delle grandi strade romane presupponevano la presenza di gruppi umani, testimoniati del resto dai vari toponimi CASTELLI, via CASTELLA, CASTELLIR dislocati lungo le grandi arterie. Inoltre le fonti storiche antiche e le scienze dell'ambiente moderne, e anche le immagini da satellite, che hanno individuato le lineazioni sepolte della centuriazione dell'agro tarvisino a Ponzano e Villorba, ci dicono che questa fu una zona sottoposta appunto alla tipica pratica romana della divisione del territorio agrario, con tutto cio' che in termini di dissodamento e di stanziamento tale pratica comporta. A proposito della centuriazione proprio anche nella nostra zona, la toponomastica, tra l'altro, si rivela decisiva, perche', se e' vero che le foto da satellite non sono riuscite ad individuare nettamente la lineazione dei cardi e dei decumani a ridosso del Piave, e' altrettanto vero che disponiamo di un importante documento toponomastico, un vero e proprio documento storico che certifica inoppugnabilmente che questa era una zona di centuriazione: il toponimo VARAGO, dal nome proprio latino VARIUS piu' il suffisso -ACUM.
Questo toponimo appartiene alla categoria ben nota dei prediali, cioe' di quegli antroponimi che in funzione di aggettivo designavano il possessore del lotto centuriato, che suonava come * (PRAEDIUM) VARIACUM, cioe' "proprieta' terriera centuriata di Vario". I prediali, questi si', hanno valore scientifico di prova: dove compaiono i prediali, li' certamente vi e' stata centuriazione.
Ecco allora che importante e decisivo diventa pure il toponimo SALTORE, nei documenti medioevali SALTUBRIUM, che deriva da SALTUS "bosco" piu' il suffisso romano-gallico -BRI(G)UM "altura", quindi "insediamento", e cioe' "insediamento nel bosco". Ma l'appellativo SALTUS ha un significato tecnico assai piu' specifico che il generico "bosco"; designava infatti tecnicamente quella porzione di territorio sottoposta si' a centuriazione ma lasciata a bosco ceduo per le necessita' di legname degli insediamenti centuriati circostanti. Anche SALTUS e' un lessema che attesta sicuramente l'antichita' romana dell'insediamento perche' la parola poi e' sparita nell'evoluzione romanza e non e' rimasta piu' funzionale.
In questo quadro e' obbligatorio allora -e anche qui l'analisi toponomastica e' certa- considerare toponimi della centuriazione tutti i vari CALLE GRANDE, CALLE PICCOLA, CALMAGGIORE, CROSE (la piazza a Varago), CROSERA DE SAN PIETRO (nella cartina IGM, tra Varago e Breda), TERMINE (IGM, dopo Breda), ecc., che alludono ai cardi, ai decumani, alle vie laterali, ai loro incroci, e ai confini della centuriazione.
Questo e' il quadro storico e ambientale in cui inserire il nostro toponimo RONCHI, e allora operiamo un ulteriore passo avanti: se prolunghiamo nella cartina IGM il tracciato della Postumia, che correva diritto, lo vediamo passare esattamente sopra i RONCHI, prima di incrociare il Piave; dunque, se quel luogo era boscoso quando i Romani costruirono la Postumia (altrimenti non sarebbe nato il toponimo), ebbene, quel luogo dovettero disboscarlo, se non volevano interrompere il rettifilo della strada.
Per questa serie di ragioni, essendo attestata cosi' profondamente la presenza romana, possiamo allora ragionevolmente supporre che il toponimo RONCHI rinvii effettivamente ad un insediamento di epoca cosi' antica e non ad un insediamento di epoca altomedioevale.
Si potrebbe obbiettare che la Postumia (e la Claudia Augusta Altinate) cadde ben presto in disuso nella zona del Piave con la decadenza dell'impero romano e si potrebbe allora enfatizzare il ruolo svolto dal fiume che con le sue "mitiche" devastazioni avrebbe eliminato ogni possibilita' di fruizione di tale via di comunicazione e avrebbe percio' scoraggiato la continuita' degli insediamenti nei RONCHI, imponendo una "regressione" ambientale cosi' accentuata da permettere la ricrescita del bosco in quel luogo. Tale luogo sarebbe stato poi disboscato nuovamente all'epoca della "rinascita" del 1000, e percio' in tale occasione, e non in epoca romana, avrebbe ricevuto il toponimo RONCHI.
Ora, che la Postumia abbia perso importanza lo testimonia certo il fatto che ad es. gli Ungari nelle loro scorribande del X secolo scendessero attraverso l'Ongaresca e attraversassero il Piave al guado di Lovadina, dove appunto passava tale arteria, e trascurassero invece la Postumia che evidentemente a ridosso del Piave non era praticabile. Ma giova ricordare che dove la Postumia intersecava il Piave probabilmente vi era in epoca romana un semplice ponte di barche, il quale, rimasto senza manutenzione quando l'impero si sfaldo' e quando nessuno aveva piu' interesse a percorere tale via commerciale, ando' presto in disuso, a prescindere da "mitiche" devastazioni del Piave, il quale, viceversa, a giudicare dalla centuriazione quasi a ridosso, non deve essere stato in questi 2000 anni molto piu' devastante di quanto non lo sia ora.
Sperare poi di illuminare con la toponomastica eventi naturali di epoche e pertinenza geologiche (anche quando si parla in geologia di paleoalvei del Piave in eta' storica, si intende comunque un'epoca ben anteriore a quella romana!) e' illusorio. La toponomastica non puo' andare aldila' dell'epoca romana; di tutto cio' che e' accaduto prima non rimane traccia nei toponimi perche' essi nascono come conseguenza della antropizzazione e di insediamenti stabili: popolazioni primitive o seminomadi o prive di una salda organizzazione sociale non incidono nel territorio in modo tale da designarlo stabilmente. E comunque di radici linguistiche e di etimi preromani non rimane quasi nulla e quei pochi, ad es. GRAVA, in realta' sono poi passati al latino, e da questo alle lingue romanze; quindi, toponimi con radici preromane ma diventati comuni appellativi potrebbero essere recentissimi. Viceversa, e' dopo il periodo romano che si puo' cercare di stratificare alcuni toponimi in fasce cronologiche utilizzando criteri linguistici per trovare tracce dei successivi insediamenti storici, e non confonderli fra loro. Per es. quali tracce di insediamento longobardo rimangono nella nostra zona?
Ma e' forse l'epoca medioevale che puo' meglio essere rischiarata con l'ausilio della toponomastica (mentre per le epoche piu' vicine, a partire da quella veneziana, vi sono ben altre scienze piu' produttive, dallo studio degli estimi agrari alla demografia storica, ecc.). Per tale epoca, ad es., risulta abbastanza chiaro l'impianto insediativo dei due borghi di Maserada, Alta e Bassa, cosi' come quello di Varago (meno chiaro invece risulta lo sviluppo medioevale di Candelu' e di Salettuol, e dello scomparso colmello di One', i quali son passati con varie peripezie di qua e di la' del Piave).
Pero' per Maserada Bassa, e precisamente per l'agglomerato urbano attorno a via Busnello, forse la toponomastica (e i documenti storici) ci permettono di dire qualcosa in piu'. E' infatti interessante a questo riguardo l'etimo del rio DOLZAL che nasce dietro allo stadio e va a gettarsi a Est di Varago nel rio Piavesella: esso deriva da *DUCEA "canale pubblico" (da DUCTUS), e quindi da *DUCEALE, aggettivo che presuppone una (FOSSA) DUCEALE cioe' "canale conduttore pubblico". Il (o "la", a questo punto) DOLZAL interseca (e intersecava) il Busnello, e BUSNELLO deriva da BUCINA, BUCINELLUM "conduttura, anche sotterranea, chiavica, fossa di scolo", e un catastico che risale al 1315 parla chiaro:

"...Regula de Cavo della Pieve de Varago
Prima una via publica la qual fi ditta Cal Trivisana la qual passa per su la ditta villa de Varago ad andar a Maserada: et e' un ponte el qual fi ditto ponte de piera sora una piovega [cioe' (FOSSA) PUBLICA "canale di scolo pubblico"] la qual fi dicta plovega de Busnello, e descore per la riegola de Varago e finisse al flume Dolzan, e la ditta plovega die fir cavada per le regule de Maserada, de Varago, de Anedo e de Candeludo de quanto la passa per su quelle riegole..."

Questo, come si vede, era il "nodo" idrico del borgo, qui evidentemente era il vero centro del borgo medioevale perche', come sappiamo, la rete idrica e' il tessuto strutturale fondamentale di ogni insediamento.

 

TOPONOMASTICA VENETA

I principali filoni toponomastici (da Dante Olivieri, Toponomastica veneta, 1961)

1) Nomi locali da nomi personali:

a) da nomi personali dell'età romana rimasti alla loro forma primitiva,

b) derivati da nomi di persona latini per mezzo di suffissi (-ano, ecc.),

c) da nomi di persona germanici,

d) da nomi di persona ebraici o cristiani, e da nomi di santi,

e) da soprannomi di persona, sostantivi o aggettivi,

f) da soprannomi di persona verbali od aventi la loro forma,

g) da soprannomi o cognomi di varia origine, anche incerta o sconosciuta;

2) nomi locali da nomi di piante o relativi ad esse;

3) nomi locali da nomi di animali;

4) nomi locali formati da aggettivi;

5) nomi locali attinenti alle condizioni del suolo;

6) nomi locali di varia originazione;

7) problemi etimologici ( anche vari toponimi attestati fin dall'epoca antica).

Quanto ai nomi che si spiegano facilmente attraverso comuni appellativi della lingua o dei dialetti (spesso in una veste fonetica arcaica) e con significati non sempre usuali o conosciuti da tutti, bisogna tenere in considerazione anche i frequenti traslati, cioè l'impiego di trasposizioni metaforiche.


CLASSIFICAZIONE DEGLI AGROTOPONIMI (da C. C. Desinan, Agricoltura e vita rurale nella toponomastica del Friuli-Venezia-Giulia, 1983)

1) AGRICOLTURA
a) Il campo in generale. Campo aperto
b) Terreni chiusi, orti e simili
c) Campo: forme e parti
d) Campo: usi e lavori
e) Proprieta'

2) ALLEVAMENTO
a) Dimora e transito del bestiame
b) Bestiame
c) Pascolo
d) Comunali

3) VEGETAZIONE ARBOREA
a) "Bosco" e simili
b) Alberi da frutto
c) Latifoglie (non fruttifere)

4) DISBOSCAMENTO E DISSODAMENTO

5) TERRENO ERBOSO

6) IMPRODUTTIVI. OSTACOLI ALL'AGRICOLTURA
a) Terreni magri, abbandonati e improduttivi
b) Vegetazione sterposa
c) Vegetazione media e bassa
d) Palude e "terreno bagnato".

Il campo semantico dei toponimi agricoli e' vastissimo, e copre una serie di concetti e valori diversissimi. Vi possiamo includere:
1) i prediali, che abbisognano di una trattazione a se' per motivi linguistici e cronologici;
2) i concetti di 'campo aperto' o 'campo esteso' o 'campo' in generale: essenzialmente le colture estensive (ma certi esemplari designano terreni erbosi)
CAMPAGNOLE, CAMPAGNOLA, CAMPAGNE, CAMPAGNA
Il tipo CAMPUS e' di origine latina e corrisponde di solito al concetto di 'campo aperto', 'coltura estensiva', e a volte anche 'incolto', 'prateria'. Con il suffisso -AN- si forma il derivato CAMPANEA, che reca in se' un significato vagamente estensivo e "aumentativo", 'terreno ampio adibito a coltura estensiva', a 'prato', anche 'incolto', 'brughiera', 'landa'. A differenza di CAMPUS che designa spesso terre sottoposte anche a coltura intensiva, di limitata estensione, pure nelle immediate vicinanze del centro abitato, CAMPANEA e' molto piu' uniforme nelle sue realizzazioni toponimiche perche' predilige i terreni ampi e piatti. Le attestazioni da CAMPUS sono molto antiche e risalgono quasi alle piu' vecchie testimonianze dei nomi veneti in genere. Per lo piu' si tratta di formazioni medioevali, ma in certi casi potrebbere trattarsi di eredita' romane, soprattutto quando appaiono particolarita' linguistiche arcaiche.
3) il concetto di 'terreno chiuso' o 'campo poco esteso': brolo, orto, siepe, giardino, 'chiusura', 'steccato' e i nomi dei principali prodotti tipici dello stesso terreno chiuso. Essenzialmente le colture intensive
A volte non e' possibile operare una netta distinzione tra il dominio semantico del campo chiuso e quello dell'orto, almeno sotto il profilo linguistico. In linea di massima, piu' il terreno e' ristretto, meno spesso figura nella toponomastica, perche' meno influisce sull'insieme del paesaggio.
BROLO deriva da BROGILOS e in origine era una parola gallica, poi passata al latino; corrisponde all'italiano brolo: Il senso generico corrisponde a 'poderetto annesso alla casa, cinto da un muro, coltivato a viti, frutta, erbaggi'.
ORTO dal latino HORTUS significava semplicemente 'terreno cintato' quindi sia 'orto' sia 'giardino'; in seguito il secondo significato fu assunto dal germanico GARDO. Il fatto che HORTUS compaia di preferenza in zone in cui l'agricoltura non costituisce una forma di vita economica importantissima non e' strano, perche' a volte e' proprio l'eccezionalita' di qualche coltura o di una qualsiasi caratteristica del paesaggio che neprovoca l'emergere a livello toponimico.
AD CENTAM (1367) da CINCTA 'terreno recintato' oppure 'cinta fortificata'; come tutti i derivati dal concetto di 'chiusura' vi e' un'ambiguita' di ordine semantico: la 'chiusura' non si riferisce necessariamente a un podere, e allude a volte a recinti per animali, steccati di divisione, e persino a cinte fortificate.
Terreni chiusi e simili: prodotti. Quanto piu' una pianta e' di larga diffusione, tanto meno pare che figuri nella nomenclatura locale. Cio' deriva da una particolare applicazione di quella che si suole chiamare "economia linguistica", e si potrebbe definire "legge della banalita'", per cui i parlanti rifuggono dalla realizzazione toponimica di cio' che sembra loro scarsamente caratterizzante.
Alberi da frutto. Dal solo aspetto linguistico e' virtualmente impossibile distinguere il frutteto trapiantato e la piantagione del bosco spontaneo soggetto a sfruttamento mediante raccolta. In maggioranza si trattava di boschi e associazioni spontanee e semispontanee, perche' l'alberata e la piantata, nei regimi economici deboli e arretrati, rappresentavano risorse minoritarie.
NOGHERE da NUCARIU 'noce': l'adesione di questo toponimo al paesaggio e' scarsa, inoltre la profonda degradazione delle associazioni arboree ad esso collegato testimonia un'opera di disboscamento massiccia e antica. In senso geografico-spaziale non c'e' rapporto preferenziale ne' con gli abitati, ne' con i corsi d'acqua, ne' con altri elementi del paesaggio.
EL PERERO (1367) : il nome dell'albero e' da PIRUS piu' il suffisso -ARIU. Il pero selvatico lascia volentieri tracce toponimiche. L'adesione al paesaggio e' migliore che per MELUS: l'antichita' della famiglia e' notevole quindi ma inferiore, pare, a quella di MELUS.
POMERE (IGM) da POMUS
L'adesione alla geografia e' molto modesta: Si tratta di un toponimo quindi discretamente arcaico.
CORNIOLI (1367) da CORNEULUS
La scarsa coerenza col paesaggio, le frequenti notizie in eta' medioevale, la varieta' fonetico-morfologica dimostrano che il toponimo e' abbastanza antico
MORERIOI (1745) 'gelso' da MORUS
Sono designati soprattutto terreni agricoli e gli aspetti linguistici poco complessi testimoniano una diffusione piuttosto recente.
Latifoglie (non fruttifere)
ROVRI (1367), ROER (IGM) 'roveri, querce' da ROBUR, ROBORE che indica il rovere ma anche la farnia e il cerro. Scarsa adesione alla geografia, caratteri fonetici vecchi testimoniano la grande antichita' della parola, gia' attestata in latino classico.
SALETTUOL, SALETTO, SALGAREDA (1367) 'salice' da SALICTUM e *SALICARIUS, quasi sinonimo di 'boschetto presso un corso d'acqua' per la preferenza che il salice ha per i luoghi umidi. Alcuni documenti di altre zone attestano il toponimo addirittura a partire dall'VIII secolo, e quindi il nome pare sufficientemente antico. Da notare la differenza tra SALICTUM e VINCARIUS: in generale pare che quest'ultimo aderisca piu' volentieri alle localita' minime. Talvolta nella toponomastica generale con SALICTUM sono designati terreni di valore modesto o insignificante, perche' troppo esposti all'azione negativa delle acque.
PAO (1367), PO (1631), PO (1745) 'pioppo' da POPULUS. Toponimo piuttosto antico che designa luoghi vicini a corsi d'acqua, anche se talvolta se ne discosta notevolmente, preferendo i suoli umidi e i terreni di valore modesto.
ONE' (1488) 'alneto' da ALNUS, collettivo. Il singolativo ha un'esistenza ombra, sottintesa dai collettivi, particolarmente nell'uso toponimico. Le profonde modifiche fonetiche dimostrano l'antichita' della sottoserie. In generale i terreni designati sono a volte buoni, a volte mediocri o cattivi. Sono attestati toponimi a partire dal X secolo.
4) disboscamento e dissodamento
Le attivita' del disboscamento, per le modifiche talora violente che apportano al paesaggio, entrano di per se', quasi d'ufficio nella nomenclatura locale. Percio' i toponimi relativi acquistano un peso storico di rilievo fondamentale, in quanto il disboscamento in molti casi prelude al dissodamento e alla colonizzazione agraria. Naturalmente il tipo piu' diffuso e' RONCHI (IGM) da RUNCARE e di solito significa 'poderi su suolo disboscato', mentre il secondo per importanza FRATTA rappresenta semanticamente uno stadio piu' arretrato e generico 'selva abbattuta'. Inoltre, almeno in origine il RONCO designo' un disboscamento piu' "leggero" effettuato con la roncola e finalizzato all'agricoltura, mentre la FRATTA si riferiva all'abbattimento di alberi di alto fusto, verosimilmente con la scure. In gran parte i toponimi del disboscamento si riferiscono al disboscamento una tantum, cioe' all'abbattimento degli alberi; alcune volte pero' riflettono i tagli periodici (cedui); altre volte ancora, ma raramente, si riferiscono a tagli parziali o a potature di rami e fronde. Non si riesce a stabilire un canone di distanza preferenziale dagli abitati, perche' luoghi remoti o appena accessibili si accompagnano ad altri attigui alle abitazioni e anche a paesi e borgate.
RUNCARE ha assunto nei documenti medioevali un autentico valore giuridico (ius ad runcandum).
Se designa ancora il bosco la denominazione puo' essere relativa, in origine, a radure e tratti disboscati, ed essersi estesa per contiguita', oppure puo' derivare da regressioni seriori dal coltivo al paesaggio silvestre, per abbandono.
5) terreno erboso: vi fanno parte i derivati da PRATO e i tipi PASCOLO, CAMPEGLIO e COMUGNA, che partecipano anche alla categoria degli etimi dell'allevamento. Non c'e' pero' una corrispondenza precisa tra la diffusione del manto erboso e quella dei toponimi relativi, e che puo' chiamarsi PRATO anche una insignificante radura in un bosco. Poiche' i terreni prativi sono piu' facili da ridurre a coltura e da edificare che quelli boschivi, numerosi di questi toponimi non definiscono piu' caratteristiche del paesaggio ma aratori, orti, nuclei abitati.
Per PRATO non c'e' corrispondenza se non parziale con le aree preferenziali di altri tipi toponimici relativi al terreno erboso, COMUGNA o PASC o la serie dello sfalcio. Anzi vi e' analogia con CAMPO che a volte designa semplicemente l'aperta campagna incolta.
6) Improduttivi. Ostacoli all'agricoltura Es. zerp da ACERBUS 'terreno improduttivo'
Etimi che riflettono concetti come 'suolo sterile', 'terreno abbandonato', 'palude', 'sterpaglia', 'vegetazione spinosa' e anche molti che alludono alla vegetazione media, in particolare a piante di scarso valore economico, anche se non proprio di ostacolo: felce, canna, giunco, erica. Bisogna escludere i derivati da PIETRA, GHIAIA, GRAVA, SABBIA perche' riflettono si' ostacoli obiettivi, ma sfumano nella pura e semplice notazione del paesaggio. Non vanno nemmeno considerati i nomi dell'albero e del disboscamento perche' la vegetazione arborea, se da un lato impedisce fortemente la coltivazione, dall'altro costituisce una primaria e autonoma fonte di ricchezza.
La vegetazione sterposa pero' ha una funzione non trascurabile nel paesaggio agrario: serviva da recinzione, per tener lontano dai coltivi gli animali. Infatti vi e' un netto rapporto preferenziale tra gli etimi della vegetazione sterposa e gli agrotoponimi.
La vegetazione media e bassa spesso integra l'agricoltura: parecchie erbe mangerecce integravano la dieta vegetale fornita dagli orti.
PALUDE rinvia a:
a) la palude, in quanto suolo impregnato d'acqua
2) le piante palustri in genere, raccolte per fare strame
3) il giunco in genere
E' naturale la preferenza del tipo toponimico per le conche e per le aree basse, dove l'acqua ristagna.
Il toponimo e' piuttosto recente e ricorda la bonifica seriore avviata in eta' basso medioevale e proseguita in eta' veneziana e contemporanea.

Un esempio
IN MACERATA DUAS...: SU UNA QUESTIONE DI TOPONOMASTICA ANCORA APERTA
Il toponimo MASERADA (assai diffuso nel Trevigiano: MASARE', MASERIALTA, MASAROLE, MASAREI, MASERAT) deriva, come si sa, dai termini latini MACERIES, MACERIA piu' il suffisso -ATA, che puo' indicare un determinante collettivo, oppure avere un valore accrescitivo o intensivo.
La prima attestazione del nome MASERADA da noi conosciuta risale ad un documento del 31 luglio 1091 (edito in P.A. Passolunghi, Da Conti di Treviso a Conti di Collalto e S. Salvatore: presenza politica ed impegno religioso della piu' antica famiglia nobile del Trevigiano, in Atti e memorie dell'Ateneo di Treviso, n.s., n.1. a.a. 1983/84, p.31), nel quale il conte longobardo Rambaldo IV di Collalto e sua moglie Matilda fanno delle donazioni al monastero di S. Eustachio di Nervesa (fondato nel 1062): "...nos...Rambaldus et Magtilda...offerimus, donamus et tradimus predicto monasterio sancti Eustachii... in Macerata duas [massaritias]...".
Anche il culto dei santi legati alla cristianizzazione longobarda nelle chiese dei piu' antichi feudi dei Collalto puo' essere un ulteriore elemento probatorio per giustificare le origini longobarde del nostro insediamento.
S.Giorgio (protettore anche della chiesa di Collalto) e' un patrono dal chiaro valore militare, come S. Eustachio e S. Salvatore. Pero', per il fatto di essere sorto presso un fiume, il culto di tali santi potrebbe avere ragioni commerciali, o addirittura, per S. Giorgio, potrebbe trattarsi del retaggio di un precedente culto bizantino, se non ostrogoto, ripreso dai Longobardi, attratti dalle figure di santi guerrieri.
Tuttavia, un periodo chiave per gli insediamenti nel Medio corso del Piave sembra essere il X secolo.
Terminate le scorrerie ungariche, i commerci erano ripresi, la strada da e per Treviso, detta "ongaresca", era ritornata sicura, e lungo questa direttrice, in prossimita' del guado di Lovadina, sulla riva sinistra del Piave in localita' Talpone, era sorto intorno al 1009, l'Ospedale di S. Maria del Piave, che aumento' man mano la sua importanza grazie allo sviluppo dei commerci e dei pellegrinaggi per la Terra Santa.
Il Medio corso del Piave era ormai una via battuta. Dalla rinascita ottoniana (X secolo) a meta' del XII secolo, esso divenne sede di vari stanziamenti, che lo sottoposero ad una graduale azione di bonifica quale non avveniva piu' da secoli.
In prima linea in questa immane opera vi erano i monaci, soprattutto i cistercensi. Essi, portati dalle disposizioni della loro regola a ricercare luoghi incolti, paludosi, spesso presso fiumi privi di argini o foreste disabitate, cominciarono a stanziarsi lungo il Piave e ad impiantare le loro fattorie agricole, dette "grancie" ( in francese granche, grange "granaio") dal latino volgare GRANICA.
E' probabile che in questo lasso di tempo sia sorto il toponimo MASERADA.
Tradizionalmente, partendo da MACERIA "mucchio di sassi", lo si addebita alle particolari caratteristiche delle nostre "grave".
Forse pero' non bisogna operare un accostamento troppo semplicistico del toponimo MASERADA con le GRAVE del Piave.
In effetti dobbiamo considerare i seguenti elementi:
1) I toponimi derivanti da MACERIES, MACERIA sono frequentissimi in Italia e nell'Europa sud-occidentale. Evidentemente, come dimostra un importante articolo di C.T. Gossen (Le destin de MACERIA en galloroman, in AA.VV., Scritti linguistici in onore di G.B. Pellegrini, Pisa 1983, pp.711-719), non stanno certo tutti ad indicare una vasta distesa sassosa in alveo come le "grave".
Partiamo dall'inizio della storia della parola. Nel latino classico MACERIA (o MACERIES), sempre in contesti legati a questioni agricole, designa soprattutto un muro in pietre seccate che serve da recinto all'interno di prati, campi, vigneti e giardini. Analogo trattamento troviamo nel latino volgare.
Poi, piu' in generale, l'ambito semantico del termine si e' allargato ad indicare un muro, una parete in pietra, una muraglia.
Il lessema si e' in seguito sviluppato nelle parlate galloromanze e italiane (mentre sembra estraneo alla penisola iberica) secondo questi quattro gruppi semantici fondamentali:
a) "muro, muraglia, parete"
ad es. MESIERE in Francia "muro fatto di terra argillosa stemperata con dei ciottoli e della paglia, e compressa"; oppure genovese MAXEA "muro posticcio a secco fatto di pietre o sassi per sostenere la terra o per altri usi".
b) "mucchio di pietre, macerie, frana"
ad es. friulano MASERIA e derivato MASARET "accumulo di sassi prodotto da una frana"; comelicano MADHERA "mucchio di grossi sassi".
c) "abitazione (in genere modesta)"
per l'influsso semantico di MANSUS, MANSURA.
d) significati secondari:
a partire dall'idea di "pietra", ad es., MACHIR (Francia) "terreno non coltivato, prato a guaime, letto di un fiume in secca";
a partire dall'idea di "chiusura", ad es., MAISIERE (Francia) "siepe", MAHIR (Francia) "terreno non edificato all'interno di un villaggio";
a partire da quella di "bordo", ad es., MASIERE (Francia) "scarpata, bordo di un bosco, di un fossato, di un fiume", MACHIR (Francia) "scarpata di un fiume".
E' da notare inoltre che la stragrande maggioranza dei derivati galloromanzi e italiani di MACERIA risale al X secolo, e questa e' un'altra ottima prova che ci permette con una certa sicurezza, assieme a tutte le altre deduzioni di ordine storico, di assegnare la nascita del nostro toponimo appunto al X secolo.
Cio' non significa, naturalmente, escludere continuita' di incolato rispetto ad un precedente insediamento. Noi non abbiamo prove che non vi sia stata continuita' fra gli insediamenti centuriati romani (divagazioni del Piave permettendo) e le successive forme di sfruttamento del territorio. Anzi abbiamo rilevato come il culto di San Giorgio potrebbe rassicurarci sulla vitalita' di preesistenze longobarde, o addirittura bizantine (ma esso potrebbe essere di importazione collaltina).
Tuttavia l'esperienza devastante delle incursioni ungariche deve aver segnato una netta cesura, tale da far configurare gli insediamenti posteriori a questa minaccia come una vera e propria rinascita: la rinascita ottoniana del X secolo, che segna l'inizio dell'ascesa della famiglia longobarda dei Collalto e, forse, il primo sviluppo della nostra comunita', cosi' territorialmente contrassegnata.
2) Le GRAVE. Grave e' gia' un toponimo ben preciso, molto piu' antico del nome di Maserada: perche' mai dunque fu introdotto un altro appellativo (cioe' MASERADA) per designare lo stesso referente (cioe' le Grave)?
Il toponimo di base preromana GRAVA e' molto ben attestato in Veneto, nel Friuli e in tutto il dominio galloromanzo.
Tra l'altro compare, non solo col significato di "ghiaia" o di "campagna piena di sassi", ma anche con quelli di "piano d'inondazione divenuto erboso", "terreno sabbioso ai bordi del mare o di un fiume", "sabbia a grana grossa che deriva dalla disgregazione delle rocce", "terreno pietroso", "prato su un terreno alluvionale", "terreno poco coltivato, campo di poco valore", "terra leggera e calcarea".
Insomma, il termine comprende tutti i derivati del campo semantico legato all'idea di terreno ghiaioso o di terreno alluvionale sottoposto alle morbide di un fiume, e simili: proprio cio' che ci aspetteremmo in relazione alle caratteristiche fisiche piu' eclatanti della nostra zona, nella quale l'alveo del Piave e' caratterizzato da una distesa di alluvioni ciottolose solcate da una serie di canali che si dividono e si incrociano.
Invece per identificare l'insediamento fu privilegiato il termine MASERADA, il quale , come si e' visto, permette di spaziare in ambiti semantici diversi, per quanto affini.
Non e' possibile quindi stabilire con certezza a quale precisa caratteristica territoriale rinvii il toponimo, anche se il riferimento all'azione geomorfologica del fiume rimane la piu' probabile.
Si potrebbe forse, sulla scorta del friulano MASERIE (Nuovo Pirona, 578), proporre un significato per il toponimo Maserada che, da un lato, ben si sposerebbe con le caratteristiche pedologiche dei suoli maseradesi, sottoposti a dissodamento nel X secolo, e, dall'altro, giustificherebbe il differenziale semantico rispetto a GRAVE: mucchi di sassi levati dai campi e accumulati sopra un fondo incolto o sui bivi delle strade di campagna.

 

LETTERATURA DIALETTALE VENETA MODERNA E CONTEMPORANEA

 

La scelta scritta e letteraria del 'dialetto' è comunque una scelta alternativa all'italiano. E' un uso riflesso del dialetto perché il dialetto è una lingua tipica della cultura orale, fondata sul rapporto diretto, e non è sradicabile dal contesto sociale e culturale in cui si sviluppa, non può essere scisso dalla personalità di colui che lo parla e dall'assoluta individualità e compiutezza che esso rappresenta.
Questa letteratura dialettale di riflesso ha un genere letterario nel quale si trova giustamente a proprio agio, ed in cui il dialetto riesce pienamente nella sua funzione espressiva: la POESIA.
A sua volta nella lirica convergono vari registri: quello intimistico (amoroso, passionale, ecc.), quello narrativo e quello parodistico, satirico. Certo poi le motivazioni e gli obiettivi che sorreggono i singoli impieghi poetici dei dialetti sono quanto di più variegato si possa immaginare.
Ma è evidente che per la poesia dialettale vale ciò che vale per il 'dialetto', il quale può esistere solo in tanto in quanto vi sia opposizione verso 'l'italiano'. Per cui la varietà delle condizioni o realizzazioni individuali nell'uso del dialetto in poesia non impedisce di sottolineare gli elementi comuni e unificanti, determinati dal confronto e dal tentativo di sottrarsi all'egemonia della cultura e della lingua poetica 'nazionale'.
Inoltre vi è un altro elemento fortemente unitario nella poesia dialettale e cioè la ricezione che ne ha il lettore o, in genere, il fruitore, il quale già sa nel momento in cui ne fruisce che si tratta di qualcosa di diverso e di alternativo alla 'lingua'.
C'è una tendenza alla trasformazione del dialetto da "lingua della realtà" a "lingua della poesia", cioè il passaggio da un dialetto inteso come apertura comunicativa, e comunitaria, a una dialettalità introversa: il dialetto diventa lingua del cuore, del ricordo, delle emozioni, degli anni giovanili, dell'evasione.
A rappresentare la poesia dialettale veneta (e friulana) introduciamo, sulla base di P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, le grandi figure di Virgilio Giotti, Biagio Marin, Pier Paolo Pasolini, Giacomo Noventa ed Andrea Zanzotto.

VIRGILIO GIOTTI (Virgilio Schonbeck) (Trieste 1885 - 1957)
Ciò che la critica, da Montale a Contini, ha individuato come veramente peculiare di Giotti è il trattamento intellettualistico, non-vernacolare del dialetto: intellettualismo che contrasta singolarmente ed efficacemente col carattere sempre e quasi per programma umile, quotidiano dei suoi temi, tra affetti familiari e scene di vita di una Trieste per niente folklorica, anzi fortemente inetriorizzata. Interrogato sul perché non si esprimesse in triestino nella comunicazione familiare, Giotti rispose memorabilmente che non si può usare per il commercio quotidiano la "lingua della poesia".
Piova
Spiovazza. Ombrele negre,
drite, storte, le cori
le scampa. Soto i àlbori,
nel sguaz, xe pien de fiori.

Xe alegro 'sto slavazzo.
Vien l'istà. E altri istai
se svea in mi pa' un àtimo,
ùmidi, verdi… andai!

'N omo se ga fermado
soto un'ombrela sbusa.
El varda i fioi che sguazza
nel ziel de 'na calusa.
Pioggia.
Piove forte. Ombrelli neri, dritti, storti, corrono, scappano. Sotto gli alberi, nel guazzo, c'è pieno di fiori. E' allegro questo acquazzone. Viene l'estate. E altre estati si svegliano in me per un attimo, umide, verdi… sparite! Un uomo si è fermato sotto un ombrello bucato. Guarda i bambini che sguazzano nel cielo di una pozzanghera.

BIAGIO MARIN (Grado 1891 - 1985)
La lirica di Marin è un po' come il suo vernacolo (di Grado): per un verso inserito nel gruppo dei dialetti veneti, per l'altro caratterizzato da appartata insularità, con fenomeni arcaici che l'idioletto del poeta sembra spesso ipercaratterizzare.
Storicamente la posizione di Marin è a cavallo fra la poesia dialettale dei primi decenni del secolo, ancora dominata dai grandi dialetti metropolitani, e quella più recente che ha visto l'affacciarsi alla poesia di dialetti marginali di piccole comunità, con scarsa o nulla tradizione letteraria.
Nella lirica mariniana è come se la cultura (che Marin possiede ampiamente), e con essa la storia, fossero messe tra parentesi radicalmente, alla ricerca di una 'naturalità' immobile e fuori del tempo.

Le ultime ricele
Le ultime ricele
l'hè tolte zo per zuogo
co' 'l ponente za in fogo
e a levante le stele.

Pochi grani dulsìi
da la longa stagion,
savorusi de bon,
d'arumi za sfinìi.

La pergola xe rossa
e za le fogie cage
dal vento persuase
co' 'na picola scossa.

Gli ultimi grappoli
Gli ultimi grappoli li ho presi giù per gioco, col ponente già in fuoco e a levante le stelle. Pochi grani addolciti dalla lunga stagione, che sanno di buono, d'aromi già sfiniti. La pergola è rossa, e già le foglie cadono, persuase dal vento, con una piccola scossa.


PIER PAOLO PASOLINI (Bologna 1922 - Roma 1975)
Per Pasolini il friulano è lingua materna solo nel senso, letterale e pregnante, che è la lingua della madre. Da questo il duplice atteggiamento, insieme di coinvolgimento profondo e di distacco sperimentale, di fronte a quella materia linguistica, definito dall'autore stesso come coesistenza di "un eccesso di ingenuità" con "un eccesso di squisitezza".
La complessità e la raffinatezza delle ragioni culturali reagisce, con effetti di decadentismo spontaneo, su una tematica quasi elementare nella sua ossessività, dominata dal triangolo madre-giovinezza-morte, e sottolineata dal ritorno di motivi-chiave come quello autobiografico di Narciso: una tematica che contiene in embrione moltissimo del Pasolini futuro, mentre la presenza della realtà friulana è sempre quella di un mondo leggendario e quasi sognato, già visto con gli occhi del distacco e insieme col sentimento di colpa di chi non ne è partecipe fino in fondo.


Mi contenti
Ta la sera ruda di Sàbida
mi contenti di jodi la int,
for di ciasa ch'a rit ta l'aria.

Encia il me cor al è di aria
e tai me vuj a rit la int
e tai me ris a è lus di Sàbida.

Zòvin, i mi contenti dal Sàbida,
puòr, i mi contenti da la int,
vif, i mi contenti da l'aria.

I soj usat al mal dal Sàbida.

Mi accontento
Nella nuda sera del Sabato mi accontento di guardare la gente che ride fuori di casa nell'aria. Anche il mio cuore è di aria e nei miei occhi ride la gente e nei miei ricci è la luce del Sabato. Giovane, mi accontento del sabato, povero, mi accontento della gente, vivo, mi accontento dell'aria. Sono abituato al male del Sabato.


GIACOMO NOVENTA (Giacomo Ca' Zorzi) (Noventa 1898 - Milano 1960)
Anche per Noventa la scelta del dialetto (veneziano italianeggiante) è una scelta 'contro'.
Per un verso il veneto è anche per Noventa (come il friulano per Pasolini) Ursprache, lingua del ritorno alle origini e del regresso alla madre; ed è lo strumento che meglio garantisce alla poesia il suo carattere 'orale', per la recitazione e la declamazione.
Ma per altro verso il dialetto è il veicolo di una polemica frontale non solo contro la poesia ma contro tutto lo sviluppo del pensiero moderno, post-ottocentesco: negando il quale, egli nega la lingua che lo esprime.
Solo attraverso il dialetto Noventa riesce a parlarci di quel che la cultura moderna non sa più nominare, solo esso può salvare il pudore di chi pronuncia qualcosa, in sé, di troppo altisonante.

Soldi, soldi…
(Inno patriottico)

Soldi, soldi, vegna i soldi,
Mi vùi venderme e comprar,
Comprar tanto vin che basti
'Na nazion a imbriagar.

Cantarò co' lori i beve,
Bevarò se i cantarà,
Imbriago vùi scoltarli,
Imbriaghi i scoltarà.

Ghè dirò 'na paroleta,
Che ghe resti dopo el vin,
Fioi de troie, i vostri fioi,
Gavarà 'l vostro destin.

Soldi, soldi, vegna i soldi,
Mi vùi venderme e comprar,
Comprar tanto vin che basti
'Na nazion a imbriagar.


ANDREA ZANZOTTO (Pieve di Soligo 1921)
Come per molti poeti del Novecento, anche per Zanzotto la riflessione e la ricerca sul linguaggio costituiscono un momento di decisiva importanza.
Da una parte la lingua è, nella società massificata, il luogo massimo dell'inautenticità e dell'alienazione, per responsabilità soprattutto dell'usura cui la sottopongono i mass-media.
D'altra parte la lingua è anche il depositario di usi e di significati passati, e nella lingua è pur sempre presente, accanto all'aspetto immediato e superficiale, la profondità della sua storia.
Non sorprende, con tali premesse, che Zanzotto sia giunto all'uso del dialetto in parecchi suoi testi e abbia anche recuperato i modi del linguaggio infantile (il petel), con i suoi balbettii e le sue onomatopee. Infatti nel dialetto e nel petel l'aspetto giocoso e creativo del linguaggio prevale su quello normalizzante e usurato, e vi si manifestano autenticità ed espressività superiori.
Il dialetto corrisponde agli ossari. Come in questi, c'è in esso un residuo vitale. Il linguaggio dei vivi è il linguaggio dell'insensatezza e del nulla, mentre la lingua dei morti e del passato, come l'ossario, può ancora recuperare un senso di presenza e di vita.
Quel che vale è la tensione, è il principio di resistenza alla disgregazione e all'ottenebramento che sembra tutto involgere e coinvolgere tutto.
Su questo sfondo problematico Zanzotto rinvia ai depositari della saggezza e della capacità di affrontare positivamente la vita (almeno nelle sue funzioni elementari), rinvia al mondo rurale arcaico, opposto all'alienazione della società tecnologico-consumistica.
La disposizione elegiaca nei confronti di un mondo in estinzione (malinconicamente e dolcemente rappresentato) si riscatta dall'astrattezza e improponibilità del mito e si tramuta in positiva volontà di resistenza e di impegno esistenziale (e in definitiva anche civile).

da Filò
……..
Vecio parlar che tu à inte 'l to saor
un s'cip de lat de la Eva,
vecio parlar che no so pi,
che me se à descunì
dì par dì 'nte la boca (e no tu me basta);
che tu sé canbià co la me fazha
co la me pèl ano par an;
parlar porét, da poreti, ma s'cèt
ma fis, ma toch cofà 'na branca
de fien 'pena segà dal faldin (parché no bàstetu?) -
noni e pupà i è 'ndati, quei che te cognosséa,
none e mame le è 'ndate, quele che te inventéa,
novo petél par ogni fiol in fasse,
intra le strùssie, i zhighi dei part, la fan e i afanezh.
Girar me fa fastidi, in mèdo a 'ste masiere
de ti, de mi. Dal dent cagnin del tenp
inte 'l piat sivanzhi no ghén resta, e manco
de tut i zhimiteri: òe da dirte zhimitero?

GLI STRUMENTI

 

Come si fa un'inchiesta dialettale per colloquio diretto?
Rispondiamo, sulla base di M. Cortelazzo, Come si fa un'inchiesta dialettale, affrontando le questioni riguardanti:
a) l'informatore;
b) la raccolta;
c) la schedatura;
d) la trascrizione.

A) L'informatore
E' importante la qualità dell'informatore (o meglio, degli informatori), ma non si cerchi ad ogni costo il depositario del dialetto puro: "la purezza di un dialetto, incontaminato da elementi esterni perturbatori della sua originaria struttura, è un mito" (Cortelazzo).
Se un informatore si rivela inadatto o insufficiente per gli scopi della ricerca lo si può sostituire, piuttosto che falsare i dati della rilevazione.
E' importante inoltre il rapporto umano che si instaura tra raccoglitore e informatore. Così pure, a questo proposito, hanno influenza gli strumenti tecnici realizzati durante l'inchiesta: carta e penna, fotografie e disegni, cassette o più sofisticati mezzi tecnici. Spesso il mezzo tecnico usato ingenera diffidenza nell'informatore oppure affiorano difficoltà di interpretazione dell'immagine stampata oppure emergono il timore istintivo del microfono o il sospetto nei confronti della registrazione delle risposte.
E' necessario controllare le risposte di un informatore principale con quelle di altri informatori secondari, interrogati indipendentemente: se esse coincidono potranno ritenersi come espressioni proprie della comunità, se divergono s'imporrà un supplemento di indagine per ricercare le motivazioni della differenza.
Una ricerca dialettale a più marcata caratteristica sociologica ha bisogno di un numero anche esteso di informatori.

B) La raccolta
Il corpus dialettale può essere raccolto, sostanzialmente, in due modi: o ricorrendo a documenti, editi o inediti, stesi con altro fine oppure con fine dichiaratamente linguistico; o radunando il materiale mediante appunto l'interrogatorio di informatori.
Ci si può avvalere contemporaneamente di tutti questi tipi di fonte.
Relativamente ai prelievi dal vivo, si può accumulare casualmente il materiale, ma non sarebbe certo il modo più produttivo per fruirne ai fini di una ricerca. Perciò di solito i rilevatori usano uno schema a griglia, più o meno fitta, che suggerisca le domande da porre, classificate secondo metodici blocchi settoriali (ad esempio la famiglia, la natura, la flora, la fauna, le arti, i mestieri, ecc.).
Esistono dei questionari già collaudati scientificamente per la compilazione di alcuni famosi (e indispensabili strumenti di lavoro per il dialettologo) atlanti linguistici: Essi sono:
a) il questionario dell'Atlante linguistico ed etnografico dell'Italia e della Svizzera meridionale (AIS) (oltre 2000 domande);
b) il questionario dell'Atlante linguistico italiano (ALI) (circa 8000 domande);
c) il questionario dell'Atlante linguistico mediterraneo (ALM) (per il linguaggio tecnico di marinai e pescatori).
Al posto del questionario, che presenta sempre rischi di artificiosità di procedimento, si può utilizzare l'inchiesta guidata: se, ad esempio, interessa il linguaggio della fienagione, si induce l'informatore a parlarne genericamente, e i termini del questionario affioreranno più spontaneamente, salvo poi richiedere direttamente i termini eventualmente tralasciati.
Questa tecnica condizionata, può essere sostituita, a seconda delle necessità, anche da quella del brano libero, nel quale l'informatore dice liberamente quello che vuole, rievocando magari qualche episodio importante della sua vita, oppure descrivendo didascalicamente le operazioni che compie quotidianamente, ecc.

C) La schedatura
Per la sistemazione del materiale il ricorso alle schede appare ancora il più razionale e raccomandabile, magari attraverso data base personalizzati.
Soprattutto nelle ricerche lessicali è consigliabile che ogni scheda registri un solo lemma dialettale (od altro elemento unitario se si riferisce a una ricerca non lessicale), con tutti i suoi tratti, e cioè:
a) voce dialettale ricondotta alla base grammaticale con la quale viene comunemente registrata nei vocabolari;
b) indicazione della funzione grammaticale;
c) indicazione dell'eventuale appartenenza della parola ad una determinata terminologia o ad un particolare livello sociolinguistico;
d) località dove è avvenuto il prelievo;
e) datazione della raccolta o della fonte scritta;
f) significato nel preciso contesto;
g) esempio nel quale ricorre la parola;
h) indicazione abbreviata, ma precisa della fonte;
i) annotazioni varie, di qualunque genere.

Ma, di quali parole occuparci? Secondo Cortelazzo non v'è limite alcuno. Quindi, ad esempio, meritano di essere registrati: parole, nessi, modi di dire, proverbi, indovinelli, filastrocche, nomi di battesimo, soprannomi, blasoni popolari, nomi di luogo, ecc.

D) La trascrizione
Un problema sempre vivo è quello della trascrizione. Si consiglia di utilizzare la Grafia Veneta Unitaria proposta nel 1995 da una apposita commissione scientifica nominata dalla Giunta regionale del Veneto: Grafia Veneta Unitaria. Manuale, a cura della Giunta Regionale del Veneto, editrice La Galiverna, Venezia 1995.

 

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IL FUTURO DEL DIALETTO

Nel 1991 Gaetano Berruto aveva prefigurato quattro scenari futuri per i dialetti italiani.
Il primo è quello del mantenimento della situazione attuale: due terzi della popolazione conosce e alterna nell'uso, in proporzioni varie, italiano e dialetto; un quarto è monolingue italofono; una piccola minoranza è ancorata alla dialettofonia esclusiva o quasi esclusiva.
Secondo Berruto ciò potrebbe verificarsi poiché l'italiano avrebbe concluso la sua 'marcia di conquista' di strati e gruppi sociali e di situazioni di impiego, raggiungendo la sua massima estensione, mentre il dialetto, "compresso per così dire dalla lunga marcia dell'italiano a certe fasce sociali e soprattutto a certi domini, vi manterrebbe una posizione relativamente solida e funzionale, in una situazione di bilinguismo bilanciato" (Berruto, 18).
Il secondo scenario è quello della "trasfigurazione dei dialetti": essi si trasformerebbero in "nuove varietà italo-romanze", a causa dei massicci fenomeni di italianizzazione a cui sono soggetti e della progressiva scomparsa delle generazioni più anziane. La conseguenza sarebbe la creazione di varietà molto più vicine dei dialetti alla lingua nazionale, con un lessico quasi totalmente mutuato da essa, e strutture superficiali fonetiche e morfologiche basate sulle koiné dialettali. Si assisterebbe dunque alla trasformazione degli attuali dialetti in varietà parassitarie della lingua nazionale, in forza dell'abbandono progressivo da parte dei parlanti della precedente competenza dialettale. Tale avvicinamento all'italiano garantirebbe il mantenimento di queste varietà.
Il terzo scenario è quello, "prospettato e paventato da molti nel secondo dopoguerra", della morte dei dialetti. Si tratterebbe del compimento "catastrofico" del secondo scenario. Le varietà parassitarie così costituite confluirebbero strutturalmente nell'italiano regionale e, dal punto di vista sociolinguistico, non sarebbero più trasmesse attraverso le generazioni. Si passerebbe dalle situazioni sociolinguistiche attuali di diversificazione "macrodiglossica" (come in Veneto) o "microdiglossica", a quella che "gli studiosi anglosassoni chiamano 'polidialettismo': cioè, a una situazione con una lingua unica in tutto il paese, contrassegnata però da numerose varietà regionali (geografiche) e sociali anche spiccatamente marcate, con la stabilizzazione di varietà basse dell'italiano fortemente interferite dal sostrato dialettale" (Berruto, 19).
Il quarto scenario, infine, è quello di una crescente, "per così dire irreparabile", differenziazione regionale: diversi gruppi di regioni arriverebbero a esiti diversi circa la coesistenza di dialetto e italiano nel loro repertorio. Questo scenario, delle "molte Italie", confermerebbe l'evidente diversa vitalità sociale attuale dei dialetti a seconda delle aree geografiche della Penisola, vitalità che raggiunge il suo massimo - come sappiamo - nella nostra regione, ed il suo minimo nelle regioni del Nord-Ovest.
Nella sede in cui prefigurò questi scenari, Berruto si pronunciò per una maggiore probabilità del quarto scenario, e quindi "perdita progressiva del dialetto in certe regioni e suo mantenimento, e continuato vigore, in altre regioni".
Tuttavia, riprendendo la questione a qualche anno di distanza (Gaetano Berruto, Come si parlerà domani: italiano e dialetto, in AA.VV.,Come parlano gli italiani [a cura di T. De Mauro], La Nuova Italia 1994), anche alla luce:
a) di nuovi dati DOXA che indicano un arresto parziale della tendenza all'abbandono del dialetto, e un aumento del comportamento bilingue in concomitanza con la diminuzione di coloro che usano esclusivamente il dialetto o l'italiano;
b) dell'emergenza di alcuni sintomi che inducono a ritenere che "il dialetto nei primi anni novanta si stia avviando a perdere il valore negativo di collocazione sociale bassa e svantaggiata, di discriminazione di prestigio ecc., e stia diventando da questo punto di vista assai più neutro";
Berruto ritiene di trovarsi di fronte alla realizzazione incipiente del primo scenario prefigurato.
Infatti la frequenza e la normalità della commutazione di codice e dell'enunciazione mistilingue potrebbero preludere al raggiungimento di una condizione di stabilità, equilibrio e ampia compatibilità tra italiano e dialetto, "ciascuno ben consolidato nei suoi propri domini e con una possibilità di sovrapposizione funzionale nei domini per così dire di mezzo"(Berruto, 23).